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Capitolo 6 - L’Italia tra le due guerre: il fascismo

📍1.

Il 18 gennaio 1919 nella reggia di Versailles si apri la conferenza di pace tra le potenze vincitrici della prima guerra mondiale. La posizione dell'Italia era particolarmente delicata e causò aspri contrasti, Secondo il Patto di Londra l'Italia avrebbe dovuto ottenere la Dalmazia, lasciando la città di Fiume agli Austriaci. Il nuovo Stato iugoslavo però rivendicò la regione dalmata, in nome del principio di nazionalità. La delegazione italiana guidata dal presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando e dal ministro degli Esteri Sidney Sonnino mantenne un atteggiamento incerto e ambiguo. Il governo italiano pretese con forza il rispetto del Patto di Londra, ma contemporaneamente, proprio in base al principio di nazionalità, cercò di ottenere anche l'annessione di Fiume, città abitata in prevalenza da Italiani. Gli alleati contrastarono queste prese di posizione. Fu particolarmente intransigente il presidente americano Wilson che non era vincolato da nessun patto. Il 24 aprile l'Italia lasciò la riunione per protestare contro l'arroganza del leader americano. Wilson decise allora di rivolgersi direttamente agli Italiani facendo pubblicare un appello per sostenere la soluzione proposta dagli Americani, minacciando altrimenti di far cadere l'intero Patto di Londra. Il 29 maggio la delegazione italiana fu costretta a ritornare al tavolo del negoziato per non rischiare di perdere anche quel poco che le spettava.

Il governo Orlando si dimise a metà giugno e fu eletto presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti, un economista di orienamento liberale democratico. Nitti si trovò immediatamente ad affrontare il malcontento dell'opinione pubblica borghese che fu rappresentato dalle sempre più frequenti manifestazioni dei nazionalisti e dagli atteggiamenti provocatori di Gabriele D'Annunzio. Il governo fu accusato di incapacità nel tutelare gli interessi nazionali e lo stesso D'Annunzio fu l'artefice di un'impresa clamorosa: l'occupazione della città di Fiume nel settembre del 1919. Il governo Nitti, dopo una prima reazione, si limitò a deplorare a parole l'impresa e fece assai poco per sedare la ribellione. Anche a causa delle incertezze di Nitti, nel 1920 tornò al governo Giolitti che s'impegnò da subito per risolvere la crisi iugoslava. Infatti, firmò il Trattato di Rapallo: la Iugoslavia ottenne la Dalmazia, all'Italia fu assegnata l'Istria. Fiume divenne uno Stato libero e indipendente.

Le conseguenze sociali ed economiche della guerra furono particolarmente pesanti per uno Stato giovane e fragile come quello italiano:

Le prime vittime di questa situazione furono proprio quei ceti sociali che avevano costituito fino ad allora la struttura portante dello Stato italiano: la piccola e media borghesia e i piccoli proprietari terrieri.

La lira perse quasi il 40% del suo valore, mentre il costo della vita aumentò di tre volte.

Questa situazione causò risentimento e malcontento soprattutto in quei piccoli e medi borghesi che in guerra avevano ricoperto ruoli di comando e speravano di ottenere in patria maggior prestigio sociale.

Durante la guerra più volte era stata utilizzata la promessa della «terra ai contadini» per incitare le masse rurali a resistere. Nel 1914 l'Italia era un Paese ancora prevalentemente agricolo: il 55% della popolazione lavorava la terra. Per comprendere la drammatica situazione delle campagne, bisogna avere ben presente la struttura della proprietà agraria. I 9/10 dei proprietari possedevano soltanto un ettaro di terreno, un'estensione troppo piccola anche per un'agricoltura di sussistenza. Molti piccoli proprietari quindi erano costretti ad affittare i fondi dai medi e grandi proprietari, oppure a lavorare come braccianti. Questa attività in particolare era molto faticosa, mal retribuita e caratterizzata da una continua precarietà. Era dunque diffusa una gran fame di terra da coltivare, soprattutto da parte di chi, tornato a casa, aveva trovato i propri terreni ormai improduttivi perché trascurati a causa della lunga assenza.

Grazie alle commesse di guerra l'apparato industriale italiano aveva incrementato la produzione. Lo dimostra chiaramente la crescita del numero dei lavoratori impiegati. Era cambiata anche la fisionomia del vecchio Stato liberale, divenuto il primo cliente delle grandi industrie siderurgiche e meccaniche e allo stesso tempo un importante distributore di impieghi. La nuova ricchezza era finita soprattutto nelle mani di pochi speculatori che avevano vissuto la guerra come un grande affare. Chi aveva rischiato la vita nelle trincee, invece, fu in prima linea anche nel subire le pesanti conseguenze economiche della guerra: in Italia come altrove, infatti, la necessità della riconversione della produzione determinò una crescente disoccupazione. In un simile contesto divennero sempre più aspre le lotte sociali. Tra il 1918 e il 1920 la Confederazione Generale dei Lavoratori (CGL) aumentò considerevolmente il numero dei propri iscritti passando da 250 000 a 2200 000. Nel 1918 venne fondata la CIL (Confederazione Italiana dei Lavoratori), sindacato d'ispirazione cattolica. Per la prima volta si poteva parlare in Italia della presenza di masse operaie, in buona parte specializzate, consapevoli del proprio ruolo sociale e agguerrite nel portare avanti le rivendicazioni sindacali.

La situazione sociale ed economica italiana divenne esplosiva. Gli scioperi si moltiplicarono con una crescita esponenziale di adesioni

In questo movimento molto composito si affacciò anche il cosiddetto «bolscevismo bianco», rappresentato da gruppi di militanti cattolici che proponevano soluzioni non molto diverse da quelle dei socialisti.

Le lotte ottennero qualche risultato sia per i contadini sia per gli operai che scioperavano per il carovita:

Nel 1919 la scena politica italiana fu caratterizzata da importanti elementi di novità. Don Luigi Sturzo fondò il Partito Popolare Italiano (PPI) che segnò il coinvolgimento diretto dei cattolici nella vita politica dell'Italia. Il PPI riuscì in poco tempo a proporsi come partito di massa, saldamente ancorato alla realtà sociale. Laico, non confessionale, costituzionale e non classista: questi furono i pilastri su cui don Sturzo fece crescere il PPI, secondo lo spirito della dottrina sociale della Chiesa. E inizialmente non mancò l'appoggio delle gerarchie ecclesiastiche che temevano l'avanzata del Partito socialista.

L'altro importante fatto politico avvenuto nel 1919 fu la nascita del movimento chiamato Fasci di combattimento, fondato da Benito Mussolini. Si collocò politicamente a sinistra, battendosi per radicali riforme sociali. Il manifesto politico dei Fasci fu chiamato programma di San Sepolcro. In campo sociale i fascisti proposero il minimo salariale, la giornata lavorativa di otto ore e la gestione dell'impresa estesa anche ai rappresentanti dei lavoratori. Inoltre si battevano per un'imposta progressiva sul capitale e per l'estensione del voto alle donne. In breve tempo, però, Mussolini si sbarazzò di questo programma e il movimento si caratterizzò soprattutto per l'aggressività verbale dei suoi membri e la violenza della loro condotta, sia nei confronti dei socialisti che della classe dirigente liberale.

📍2. Il biennio rosso in Italia

Nel novembre del 1919 si tennero delle elezioni che rivoluzionarono il quadro politico italiano. Innanzitutto venne utilizzato per la prima volta il sistema proporzionale voluto dai socialisti e dai popolari per una maggiore democratizzazione della vita politica.

Ebbero la meglio quindi i due grandi partiti di massa, meglio organizzati e radicati nella società italiana:

Questi risultati elettorali non riuscirono a dare stabilità al Paese, anzi ne acuirono le difficoltà.

Nel 1920 la protesta fece un ulteriore salto di qualità passando all'occupazione delle fabbriche. La loro intransigenza provocò un crescendo di tensione: i sindacati proclamarono uno sciopero bianco, gli operai cioè entravano in fabbrica ma non lavoravano; gli industriali allora dichiararono la chiusura degli stabilimenti. In agosto scattò infine l'occupazione delle fabbriche, guidata dai sindacati rossi mentre i sindacati cattolici, poco organizzati nel settore metallurgico, rimasero estranei alla protesta. Tra i gruppi rivoluzionari più attivi e preparati si distinse quello torinese raccolto intorno alla rivista «l'Ordine Nuovo», tra i cui fondatori vi fu anche Antonio Gramsci. La rivista aveva più volte indicato agli operai lo strumento rivoluzionario dei consigli di fabbrica per acquistare maggiore potere nel controllo delle aziende e nella società.

Nel giugno 1920 fu chiamato l'ormai ottantenne Giovanni Giolitti a sostituire il dimissionario governo Nitti, indebolito dalle lotte sociali e soprattutto dalla vicenda di Fiume. Nonostante le pressioni degli industriali, si rifiutò di utilizzare la forza per far sgombrare gli stabilimenti. Realizzò invece un'intelligente opera di mediazione e di riconciliazione tra CGL e industriali; gli operai ottennero aumenti salariali e la promessa, mai realizzata, di un possibile controllo sulla gestione delle aziende; in cambio sgomberarono le fabbriche.

Nonostante il successo elettorale e i risultati ottenuti con le lotte sindacali, il socialismo italiano era molto diviso al proprio interno. Per i massimalisti guidati da Giacinto Menotti Serrati la rivoluzione russa del 1917 divenne il modello da seguire, anche se la strategia per arrivare a un autentico moto rivoluzionario non era per nulla chiara. I riformisti contavano nelle proprie file personalità come Filippo Turati e Claudio Treves, in minoranza nel partito ma maggioritari nella CGL e nei comuni amministrati dai socialisti. Al Congresso di Livorno del gennaio 1921 le contraddizioni esplosero. Lenin stesso esercitò delle pressioni affinché fossero applicati i ventuno punti approvati dal Comintern nel 1920: in particolare chiese a Serrati di estromettere i riformisti. I massimalisti però non volevano giungere fino a questo punto; in tale contesto la corrente guidata da Gramsci e Bordiga si staccò dal Partito socialista e fondò il Partito Comunista d'Italia.

📍3. La marcia su Roma

Mentre le durissime lotte sociali del biennio 1919-20 avevano indebolito e deluso la maggior parte degli operai delle fabbriche, nelle campagne i contadini erano riusciti a ottenere risultati significativi. Le associazioni, contrattavano direttamente con i proprietari il numero di giornate lavorative necessarie per ogni campo e poi distribuivano il lavoro tra i loro iscritti. Questo sistema, all'apparenza solido, era caratterizzato in realtà da profonde divisioni tra i salariati, da una parte, che miravano alla socializzazione della terra e i mezzadri e i piccoli affittuari, dall'altra, che speravano invece di riuscire a diventare, prima o poi, proprietari terrieri.

Alla fine del 1920 Bologna era diventata il centro propulsore del movimento sindacale tanto che, alle elezioni amministrative del Comune, i socialisti ottennero una schiacciante vittoria. Il 21 novembre 1920, giorno dell'insediamento del Consiglio comunale a Palazzo d'Accursio, quando il sindaco si affacciò sulla piazza per salutare, partirono dalla folla dei colpi di pistola. I fatti di Palazzo d'Accursio segnarono la nascita del fascismo agrario. Fino all'autunno del 1920 il movimento fondato da Mussolini aveva avuto un ruolo ininfluente nelle vicende politiche nazionali. Tra la fine del 1920 e l'inizio del 1921 avvenne la svolta: fu accantonato il programma di San Sepolcro e vennero costituite formazioni paramilitari (le squadre d'azione) per intimidire e colpire duramente il movimento socialista. Lo squadrismo ottenne immediatamente l'appoggio finanziario della borghesia terriera desiderosa di una rivalsa, ma raccolse militanti soprattutto:

La tolleranza mostrata da molti politici liberali verso il fascismo fu dovuta soprattutto alla speranza di potersene servire per arginare le pretese del movimento socialista, innanzitutto, ma anche dei popolari. In questo senso si può comprendere la decisione di Giolitti di indire nuove elezioni il 15 maggio 1921 e di accettare la composizione di liste comuni (i blocchi nazionali) formate da liberali, gruppi di centro e fascisti. Giolitti puntava a un netto ridimensionamento dei socialisti e dei popolari ma i risultati elettorali non gli diedero ragione: il Partito socialista subì una lieve flessione (da 156 a 122 seggi), considerando anche la scissione del Partito comunista che ottenne 16 seggi; i popolari addirittura aumentarono i consensi (da 100 a 107 seggi). I blocchi nazionali ottennero 275 seggi, 35 dei quali andarono ai fascisti. La speranza dei liberali di riconquistare un saldo controllo del Parlamento fu delusa. Giolitti ne prese atto e rinunciò a guidare il governo che venne invece formato dall'ex socialista Ivanoe Bonomi. A questo punto al Congresso dei Fasci del novembre 1921 Mussolini decise di trasformare il movimento nel Partito Nazionale Fascista (PNF): era un altro passaggio della svolta moderata con cui cercava di proporsi sempre più come leader politico credibile e affidabile. Mussolini riuscì a limitarne la libertà d'azione, ma si rese anche conto di non poter fare a meno della capacità di proselitismo dei militanti più intransigenti.

Luigi Facta sostituì Bonomi dopo solo sei mesi di governo instabile e inconcludente. Il nuovo presidente del Consiglio avrebbe guidato il Paese fino all'ottobre 1922, appoggiato da una coalizione di liberali e popolari. Si trattava di un governo molto debole sia per la scarsa determinazione di Facta, sia per l'assenza di una profonda intesa tra le forze che componevano la maggioranza. Mussolini nel frattempo rimodellò abilmente il Partito fascista, modificandone significativamente il programma:

Queste nuove posizioni resero più presentabile e credibile il PNF come forza di governo. Mussolini comprese che era venuto il suo momento e decise di forzare i tempi. Il 24 ottobre 1922 riunì a Napoli migliaia di camicie nere in vista della marcia su Roma per assumere il potere con la forza. Quando venne informato dell'evento, Facta chiese al re Vittorio Emanuele III di firmare la proclamazione dello stato d'assedio che avrebbe permesso l'intervento dell'esercito. Il re, dopo qualche esitazione, rifiuto; il 28 ottobre le colonne fasciste entrarono nella capitale il 30 ottobre del 1922 Mussolini, giunto da Milano, dove si era trattenuto attendendo gli sviluppi della situazione, ricevette ufficialmente dal sovrano l'incarico di formare il nuovo governo.

📍4. La dittatura fascista

il 1922 e il 1924 Mussolini guidò un governo di coalizione costituito da fascisti, liberali, popolari (benché Sturzo fosse contrario) e altre componenti. Forte di questi appoggi, il 16 novembre 1922 Mussolini si presentò al Parlamento con un discorso arrogante che gli valse comunque 306 voti favorevoli. Per realizzare ciò che aveva promesso ai gruppi politici conservatori che lo avevano appoggiato, Mussolini abbandonò la politica economica di Giolitti che colpiva i profitti di guerra e sciolse le amministrazioni comunali in mano a socialisti e popolari; Ma tutte le opposizioni e una parte degli alleati chiedevano a Mussolini soprattutto la fine della violenza come arma di lotta politica e lo scioglimento delle squadre fasciste. A tale prospettiva si oppose con forza l'ala radicale del partito guidata da Roberto Farinacci. Mussolini decise allora di creare la Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, legalizzando di fatto lo squadrismo e trasformandolo in forza armata del regime. Nel 1923 il governo Mussolini perse l'appoggio dei popolari che nel Congresso di Torino dello stesso anno approvarono la posizione antifascista di don Sturzo.

Negli anni 1922-24 Mussolini alternò un atteggiamento moderato, a richiami minacciosi verso una possibile seconda ondata rivoluzionaria. Tra i provvedimenti assunti in questo periodo merita ricordare:

Il 30 maggio del 1924 il deputato Giacomo Matteotti, segretario del Partito Socialista unitario, pronunciò un coraggioso discorso alla Camera, denunciando i brogli e le violenze compiute dalle squadre fasciste in molti seggi elettorali. Il 10 giugno Matteotti venne rapito a Roma da un gruppo di squadristi e ucciso in auto a pugnalate. Il suo cadavere fu ritrovato solo due mesi dopo, in una macchia a pochi chilometri dalla capitale. Improvvisamente gran parte dell'opinione pubblica si risvegliò dal torpore degli anni precedenti e si rese conto delle responsabilità fasciste. Gli esecutori del delitto furono arrestati dopo pochi giorni, ma i mandanti non furono mai scoperti. Vi fu un crollo della popolarità di Mussolini e del suo partito, ma le opposizioni non riuscirono ad approfittarne, sia perché fortemente ridimensionate dalle elezioni, sia per le divisioni interne. Si formò così la cosiddetta secessione dell'Aventino: di fatto l'opposizione sperava che il re intervenisse ritirando la fiducia a Mussolini, ma il sovrano non assunse alcuna iniziativa.

Dopo pochi mesi l'ondata antifascista cominciò a placarsi e Mussolini comprese che era giunto il momento di contrattaccare. Il 3 gennaio 1925 in un discorso alla Camera, il duce si assunse la responsabilità «politica, morale e storica» di quanto era avvenuto, gettando le basi per l'instaurazione della dittatura: «Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! Era l'annuncio degli arresti e delle restrizioni che in pochi giorni resero impossibile la vita dei partiti d'opposizione e dei loro organi di stampa. L'assassinio di Giacomo Matteotti segnò dunque la morte della democrazia liberale e l'affermazione della dittatura fascista.

📍5. L’Italia fascista

A partire dal 1925 il fascismo fece approvare una serie di leggi (dette «fascistissime») che segnarono formalmente la definitiva trasformazione del fascismo in una dittatura. Fu il giurista Alfredo Rocco a ispirare il nuovo quadro legislativo. Furono eliminate le autonomie locali e le elezioni comunali: la carica di sindaco fu abolita e sostituita da quella di podestà, nominato direttamente dal governo. Fu limitata la libertà di stampa e di associazione, mentre nel 1926 vennero sciolti tutti i partiti di opposizione e chiusi i giornali antifascisti. Vennero quindi dati ampi poteri alla polizia segreta, incaricata di individuare e arrestare gli oppositori. Fu istituito il Tribunale speciale per la difesa dello Stato (novembre 1926) che comminò decine di condanne a morte e oltre 28 000 anni di carcere.

Contemporaneamente alla riorganizzazione dello Stato, Mussolini si preoccupò anche della normalizzazione del partito. Fu tolta così la direzione del partito a Roberto Farinacci, squadrista della prima ora, tra i più radicali e violenti, e le cariche gerarchiche vennero assegnate direttamente da Mussolini. Il Partito fascista si riorganizzò in una struttura burocratica sottoposta localmente ai prefetti. Il vertice era rappresentato dal Gran Consiglio del fascismo, affidato alla presidenza di Mussolini, unico organo del partito in cui si discuteva collegialmente di linea politica. Nel 1928 la trasformazione dello Stato liberale in Stato totalitario fu completata con una nuova legge elettorale.

Il nuovo ruolo del partito può essere colto appieno nell'impegno profuso per organizzare il consenso nella società italiana, cercando di influire sui costumi, sulla mentalità e sulle attività quotidiane delle masse. Innanzitutto divenne obbligatorio possedere la tessera del partito per ottenere un posto nell'amministrazione pubblica o per conquistare promozioni e privilegi. l'Opera Nazionale Dopolavoro si occupava del tempo libero dei lavoratori proponendo gite, gare sportive e altre forme di animazione, mentre il Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI) stimolava e allo stesso tempo controllava le attività sportive, fino ad allora affidate a società private. Ma le organizzazioni più importanti furono i Fasci giovanili, i Gruppi Universitari Fascisti (GUF) e soprattutto l'Opera Nazionale Balilla (ONB). A quest'ultima associazione appartenevano i ragazzi fra gli 8 e 14 anni (detti balilla) e quelli fra i 14 e 18 anni (detti avanguardisti). I ragazzi venivano educati alla dottrina fascista e al culto di Mussolini con esercitazioni, marce e parate militari.

Il controllo dell'informazione fu attuato in maniera capillare. La stampa fu sottoposta a censura; i direttori di giornale non graditi al governo furono sostituiti. Nel 1927 venne fondato un ente radiofonico, l'EIAR (antenato della RAI) che si occupò della gestione di questo nuovo potentissimo mezzo di comunicazione. La radio si rivelò infatti uno strumento molto efficace per la diffusione delle informazioni che il regime voleva far conoscere agli Italiani. I discorsi di Mussolini furono ascoltati dai cittadini nei locali pubblici, nei luoghi d'incontro e nelle case proprio grazie alla radio. Dal 1926 i gestori delle sale cinematografiche vennero obbligati a proiettare i cinegiornali dell'Istituto LUCE, casa di produzione alle dirette dipendenze di Mussolini. Nel 1937 fu infine istituito il Ministero della Cultura Popolare (MINCULPOP) con l'obiettivo di controllare e orientare tutti gli aspetti della vita culturale italiana.

Le gerarchie ecclesiastiche pensarono fosse giunto il momento di chiudere lo storico contrasto che aveva segnato i rapporti fra lo Stato e la Chiesa fin dalla nascita del Regno d'Italia. Le trattative fra governo e Santa Sede cominciarono nel 1926 e si conclusero I'11 febbraio 1929 con la firma dei Patti lateranensi.

Il documento si componeva di tre parti:

Pio XI espresse soddisfazione per l'accordo raggiunto, riconoscendo che era stato «nobilmente assecondato» dal governo e pronunciando un giudizio su Mussolini di cui il Vaticano si sarebbe dovuto pentire: «E forse ci voleva anche un uomo come quello che la Provvidenza Ci ha fatto incontrare; un uomo che non avesse le preoccupazioni della scuola liberale».

Don Sturzo, invece, commentò con amarezza la conciliazione tra Stato e Chiesa: Il sacerdote siciliano aveva ragione.

Nel 1931, infatti, il regime tentò di esautorare completamente l'Azione Cattolica dal compito di educare i giovani.

La prima fase (1922-1925) della politica economica fascista fu di stampo decisamente liberista, sotto la guida del ministro delle Finanze Alberto De Stefani. Furono concessi sgravi fiscali alle imprese e stimolata l'iniziativa privata con incentivi. I buoni risultati raggiunti però non furono sufficienti a fermare l'inflazione e a stabilizzare la moneta, uno dei fattori di maggior preoccupazione sia per il ceto medio risparmiatore, sia per gli investitori esteri. Così nel 1926 Mussolini decise di cambiare linea politica: nominò ministro delle Finanze Giuseppe Volpi e impostò la nuova politica economica sulla stabilizzazione della lira, adottando misure protezionistiche. Rimase famoso il discorso tenuto a Pesaro il 18 agosto 1926 sulla rivalutazione della lira: venne fissato l'obiettivo del cambio con la sterlina a 90 lire (nel 1925 ci volevano 150 lire per una sterlina), obiettivo raggiunto in poco più di un anno.

Uno dei primi importanti provvedimenti economici fu l'aumento del dazio sui cereali, accompagnato da una enfatica e insistente campagna propagandistica, la cosiddetta battaglia del grano. Questa avrebbe dovuto portare l'Italia a raggiungere l'autosufficienza nel settore dei cereali, aumentando la superficie coltivabile e migliorando le tecniche di coltivazione. In questo senso nel 1928 venne iniziato il progetto di bonifica integrale delle maggiori zone paludose italiane. Il progetto riuscì solo in parte, ma furono significativi gli interventi realizzati nell'Agro Pontino dove venne costruita la città di Littoria (oggi Latina). Fu questo il primo passo della politica dell'autarchia che caratterizzerà il fascismo degli anni Trenta, soprattutto a livello ideologico. La parola autarchia è di origine greca e significa «autosufficienza»: l'Italia, dunque, avrebbe dovuto essere in grado di produrre autonomamente ciò di cui aveva bisogno, evitando di dipendere dalle importazioni estere. In realtà tutte queste misure economiche ebbero costi sociali molto alti.

Per quanto riguarda i rapporti tra operai e imprenditori, il fascismo condannò lo sciopero e la lotta di classe, abolendo anche ogni libertà di contrattazione. Nell'ottobre del 1925 i sindacati fascisti e la Confindustria raggiunsero un'intesa che divenne poi legge nel 1926 e che prevedeva validità giuridica ai soli accordi stipulati dai sindacati fascisti. Questa posizione ideologica propagandata come «nuova» e distinta sia dalle idee socialiste sia da quelle liberali fu chiamata corporativismo. L'ordinamento corporativo fu enunciato in modo ufficiale dalla Carta del lavoro del 1927: tutti i settori della produzione avrebbero dovuto organizzarsi in corporazioni, ovvero organizzazioni composte da lavoratori e padroni appartenenti allo stesso settore economico, inquadrati comunque all'interno dello Stato e soggetti a un apposito ministero.

L'intervento dello Stato in campo economico divenne sempre più massiccio negli anni Trenta. Anche per fronteggiare gli effetti della crisi economica del 1929, nel 1931 fu istituito l'Istituto Mobiliare Italiano (IMI), un istituto di credito pubblico capace di sostituirsi alle banche nel sostegno alle industrie in difficoltà. Nel 1933, inoltre, fu creato l'Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI) che divenne azionista di maggioranza di banche in crisi e acquistò il controllo di alcune grandi aziende italiane (Ilva, Terni e Ansaldo). Nella sostanza, decine di imprese furono salvate grazie ai finanziamenti pubblici.

Sin dalle origini il fascismo fu caratterizzato ideologicamente da una forte componente nazionalista. La propaganda presentava Mussolini come alfiere della riscossa nazionale, l'uomo che sarebbe stato capace di far rivivere la gloria dell'antica Roma imperiale e di riscattare il Paese dalle penalizzazioni subite. Fino agli anni Trenta, però, i proclami nazionalisti rimasero vaghi e velleitari e il duce preferì mantenere la tradizionale amicizia con Francia e Inghilterra. Le cose cambiarono nel 1934, quando Mussolini decise di conquistare l'Etiopia. Il duce intendeva dare all'Italia un impero, ampliando i possedimenti coloniali già acquisiti.

Le truppe italiane invasero l'Etiopia il 3 ottobre 1935, senza nemmeno una dichiarazione di guerra. Grazie all'abbondanza di uomini e mezzi, Addis Abeba fu conquistata il 5 maggio 1936. Il re etiope Hailè Selassiè fu costretto alla fuga, ma iniziò una logorante guerriglia che i fascisti non riuscirono mai a sconfiggere completamente. Mussolini era convinto che la conquista dell'Etiopia avrebbe ottenuto il tacito assenso di Francia e Gran Bretagna e che la comunità internazionale non sarebbe intervenuta. Invece, pochi giorni dopo l'inizio dell'invasione, la Società delle Nazioni condannò l'Italia in quanto aggressore di un altro Paese membro dell'associazione. Nel novembre 1935 la Società delle Nazioni decretò anche delle sanzioni economiche, vietando la vendita all'Italia di beni di interesse militare. In realtà, le sanzioni non indebolirono in nessun modo il potenziale bellico italiano perché non comprendevano le materie prime, ma soprattutto perché di fatto non vennero rispettate neanche dagli Stati che le avevano imposte. In compenso fornirono a Mussolini l'opportunità di assumere atteggiamenti vittimistici, denunciando l'ennesimo tentativo di «strangolare» l'Italia e di impedirle di conquistare il suo «posto al sole». Un ottimo argomento propagandistico che garantì al regime il consenso dell'opinione pubblica nazionale, unita nella volontà di resistere alle sanzioni: vi furono manifestazioni entusiaste di sostegno al governo e contro gli Inglesi; milioni di sposi donarono l'oro delle proprie fedi nuziali «alla patria»; i giornali denigrarono gli Etiopi come «selvaggi» da civilizzare e ogni pur timida voce d'opposizione sembrò sparire. Fu probabilmente questo il periodo in cui Mussolini e il fascismo godettero del maggior consenso.

Il 9 maggio 1936 Mussolini annunciò la fondazione dell'Impero dell'Africa Orientale Italiana (AOI) e offrì a Vittorio Emanuele III la corona di imperatore d'Etiopia. Nell'estate del 1936 le sanzioni furono ritirate e Gran Bretagna e Francia riconobbero l'impero italiano d'Africa, lasciando così la sensazione che il fascismo fosse riuscito a imporre la propria volontà a tutta l'Europa.

La conseguenza più grave della guerra d'Etiopia fu l'avvicinamento di Mussolini a Hitler. La Germania infatti aveva appoggiato la conquista coloniale italiana garantendo rifornimenti di armi e di materie prime. Nell'ottobre del 1936 fu dunque firmato un patto di amicizia tra Italia e Germania (detto Asse Roma-Berlino). Non si trattava ancora di un'alleanza militare vera e propria, anche perché Mussolini voleva utilizzare questo accordo soprattutto per fare pressione sulle altre potenze europee affinché gli venissero concessi maggiori vantaggi in campo coloniale. In quest'epoca l'Italia giunse anche a condividere le aberranti discriminazioni contro gli Ebrei che già caratterizzavano il nazismo. Nel 1938, infatti, il regime fascista promulgò le leggi razziali contro gli Ebrei, a imitazione di quelle già introdotte in Germania dal 1935. Queste leggi vietavano i matrimoni misti tra Ebrei e non Ebrei; impedivano agli Ebrei di frequentare la scuola pubblica, di fare il servizio militare, di svolgere determinate professioni. In Italia però non esisteva una forte tradizione antisemita e queste discriminazioni suscitarono molte perplessità nell'opinione pubblica e la dura condanna della Chiesa cattolica. Le leggi contro gli Ebrei, dunque, indebolirono il consenso degli Italiani verso il fascismo e prepararono la crisi del regime che sarebbe stata determinata dalla seconda guerra mondiale.

📍6. L’Italia antifascista

A partire dal 1926 l'opposizione al fascismo divenne un reato, punito con il carcere o il confino. Per sottrarsi a queste persecuzioni molti scelsero di emigrare, come l'ex presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti che si rifugiò a Parigi. Numerosi intellettuali si ritirarono negli studi, approfittando dei piccoli spazi di autonomia culturale che era possibile ritagliarsi nell'Italia fascista. Un’eccezione importante fu rappresentata dal filosofo Benedetto Croce, intellettuale stimato in tutta Europa e per questo tollerato dal regime che non voleva danneggiare la propria immagine internazionale. Croce, dopo un'iniziale simpatia per il fascismo, nel 1925 dichiarò il proprio dissenso attraverso il Manifesto degli intellettuali antifascisti in cui condannò l'ideologia mussoliniana.

Giustizia e Libertà fu un movimento antifascista fondato a Parigi nel 1929 da un gruppo di profughi italiani, tra i quali Carlo Rosselli, Emilio Lussu ed Ernesto Rossi. Vi aderirono giovani di formazione liberale che si rifacevano alle idee di Piero Gobetti, nuclei di laici repubblicani e uomini di cultura socialista vicini a Gaetano Salvemini. Nel 1937 Rosselli venne assassinato da sicari fascisti insieme al fratello Nello. Il movimento si dissolse nel 1940, quando la Francia venne occupata dai Tedeschi. Ma molti dei suoi uomini si riunirono nella Resistenza contro l'occupazione nazista in Italia, fondando il Partito d'Azione.

Il Partito comunista fu la forza politica che meglio seppe organizzare un rete di opposizione clandestina in Italia. Questa scelta costò enormi sacrifici umani: più di tre quarti dei condannati dal Tribunale speciale fascista furono infatti militanti comunisti. La direzione del partito stabili la sua sede a Parigi, sotto la guida di Palmiro Togliatti divenuto segretario generale del partito nel 1926; in Italia i militanti diffondevano giornali, opuscoli, volantini di propaganda antifascista e s'infiltravano nelle organizzazioni giovanili, nei sindacati fascisti e nel dopolavoro. Solo nel 1934, di fronte alla crescita e diffusione del fascismo in tutta Europa, l'Internazionale Comunista cambiò linea politica, invitando a unire le forze per sconfiggere il nemico. In diversi Stati così si realizzarono accordi politici tra socialisti e comunisti.

Altri gruppi antifascisti erano composti da repubblicani, socialisti, come Filippo Turati, Giuseppe Saragat e Pietro Nenni, cattolici come Giuseppe Donati e Alcide De Gasperi. A Parigi gli esuli italiani, soprattutto gli esponenti di ispirazione repubblicana e socialista, fondarono nel 1927 un'organizzazione unitaria, la Concentrazione antifascista: essa si impegnò attivamente in un'opera di propaganda internazionale contro il regime.


Il Fascismo in sintesi