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Capitolo 12 - La distensione

Il 5 marzo 1953 morì Stalin e ciò favorì una nuova fase: il cosiddetto disgelo.

Al Cremlino si insediò Nikita Kruscev.

Diventato segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, Kruscev dimostrò subito di voler chiudere l’epoca oscura dello stalinismo.

Nel frattempo negli Stati Uniti era diventato presidente Eisenhower, il generale dello sbarco in Normandia.

Eisenhower sostenne la necessità di irrigidire ancor di più la condotta americana nei confronti dell’Unione Sovietica, passando da una politica di contenimento del comunismo a una che mirava a farlo arretrare.

Ma di fatto l’amministrazione mostrò attenzione ai segnali di apertura che provenivano dall’Unione Sovietica.

Queste posizioni resero possibile la Conferenza di Ginevra nel 1955..

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Iniziò così la fase della distensione: il contrasto e la competizione tra USA e URSS restarono ma senza le tensioni e gli eccessi degli anni precedenti.

Nel 1956 Kruscev denunciò i crimini di Stalin.

Tra i comunisti occidentali, che consideravano Stalin un eroe, il disorientamento fu grande.

Nei Paesi del blocco comunista, invece si sviluppò la speranza di una vera svolta verso un regime meno oppressivo.

In Ungheria si fece il tentativo più ambizioso: il capo del governo voleva concedere la libertà di stampa e portare l’Ungheria fuori dal Patto di Varsavia.

Ma l’Unione Sovietica fece intervenire l’Armata Rossa e soffocò nel sangue il tentativo riformatore (1956).

La repressione ungherese destò grande scalpore in Occidente. Alcuni comunisti presero le distanze dall’Unione Sovietica.

La repressione aveva dimostrato anche che gli Stati comunisti dell’Europa orientale erano degli Stati satelliti: non contavano nulla perchè dipendevano completamente dalla volontà di Mosca.

Altre brutali repressioni confermarono la totale sottomissione all’URSS degli Stati del blocco comunista.

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Il caso più grave si verificò in Cecoslovacchia: il partito comuinsta tentò di dar vita a un processo riformatore ma l’Unione Sovietica, preoccupata che questa iniziativa si estendesse a tutti gli altri Paesi del blocco sovietico, decise di intervenire.

Nell’agosto del 1968 carri armati dell’Armata Rossa entrarono in Praga, ponendo fine alla “Primavera di Praga”.

La giustificazione di questo intervento è passata alla storia come la teoria della sovranità limitata.


I cambiamenti avvenuti in Unione Sovietica negli anni Cinquanta ebbero importanti ripercussioni anche nei rapporti con la Cina.

Dopo alcuni anni di collaborazione con la Cina del tutto allineata all’URSS, alla fine del decennio fra i due Stati emersero contrasti sulle questioni di politica internazionale ma anche riguardo alle scelte di politica interna dei rispettivi governi.

L’URSS intendeva assumere la guida esclusiva del mondo comunista, mentre la Cina intendeva contestare questo bipolarismo, mettendosi alla guida dei movimenti rivoluzionari del Terzo Mondo in vista di una più decisa lotta contro l’imperialismo capitalista.

Dopo la proclamazione della Repubblica popolare nel 1949, la Cina aveva iniziato un grande sforzo di industrializzazione, soprattutto nell’ambito dell’industria pesante, grazie anche all’aiuto di tecnici sovietici: i risultati furono soddisfacenti.

Per rilanciare la produzione agricola, Mao Zedong e i vertici del partito lanciarono la campagna utpistica del “grande balzo in avanti”.

Le comuni popolari, che riunirono forzatamente le piccole cooperative, divennero l’unità di base amministrativa ed conomica della Cina: avrebbero dovuto diventare autosufficienti in tutti i settori e per questo la popolazione subì controlli sempre più rigidi e una propaganda martellante.

Un altro fronte di contrasto fu la scelta russa di non fornire assistenza alla Cina in ambito nucleare, per mantenere la supremazia in quel settore nel mondo comunista: la Cina riuscì a dotarsi comunque della bomba atomica nel 1964, ma i rapporti fra le due nazioni erano ormai incrinati.

Il fallimento del “grande balzo in avanti” diede forza ai settori più moderati del gruppo dirigente comunista.

La reazione di Mao fu durissima e inedita nei regimi comunisti: grazie all’appoggio dell’esercito e del ministro della Difesa, vennero mobilitati i Cinesi più giovani in una ribellinoe contro i fautori della “via capitalistica”.

Questa mobilitazione culminò nella “rivoluzione culturale”: negli ambienti di laboro, nelle scuole, le giovani Guardie rosse contestavano e rovesciavano ogni autorità.

La rivoluzione culturale avrebbe dovuto portare a un rovesciamento radicale nella cultura e nella mentalità del popolo cinese per una rapida realizzazione del comunismo, ma fu anche un vero e proprio Colpo di Stato.

In molte parti del mondo, e in particolare in Europa occidentale, la rivoluzione culturale divenne fonte di ispirazione per molti gruppi e movimenti giovanili: il loro riferimento era il “libretto rosso”, un’antologia di scritti di Mao Zedong.

La rivoluzione culturale aveva causato profonde fratture all’interno del movimento comunista cinese e portato l’economia nazionale sull’orlo del caos,

Le Guardie rosse furono allontanate dalle città e nel partito gli elementi più radicali furono posti ai margini, sostituiti da tecnici ed esperti.

Fu preziosa in questo momento l’opera di Zhou Enali, che segnò una sostanziale continuità durante un periodo di grandi cambiamenti.

A lui si deve anche una nuova linea in politica estera: per sfuggire all’isolamente in cui l’ostilità dell’URSS l’aveva lasciata, la Cine aprì clamorosamente agli Stati Uniti.

Nel 1972 la Cina comunista venne ammessa all’ONU.

Mao Zedong e Zhou Enali morirono entrambi nel 1976: la Cina comunista si avviava verso un radicale cambiamento.


Nel gennaio 1961 divenne presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy.

Ebbe subito grande popolarità per il suo stile personale e si impegnò in una battaglia per rinnvoare la società americana e per favorire la distensione internazionale.

Dopo la conquista dell’Ovest compiuta nell’Ottocento ora bisognava oltrepassare una “nuova frontiera”, non più materiale, ma culturale e scientifica.

Nel 1961 Kennedy incontrò per la prima volta Kruscev: il problema da risolvere era quello di Berlino Ovest che i Sovietici avrebbero voluto trasformare in “città libera”, mentre per gli Americani faceva parte a tutti gli effetti della Germania federale.

La risposta sovietica non si fece attendere: due mesi dopo, venne costruito un muro che attraversava la città di Berlino così da dividere il settore orientale da quello occidentale.

Da allora il Muro di Berlino divenne il simbolo della guerra fredda.

Intanto a Cuba una rivoluzione aveva portato al potere un governo di tendenze marxiste guidato da Fidel Castro; numerose pressione furono esercitate su Kennedy affinché fosse eliminato un pericolo comunista così vicino.

Il presidente diede il suo avallo a una spedizione di esuli cubani appoggiati dai servizi segreti americani; riuscirono a sbarcare sull’isola ma ebbero la peggio nello scontro con l’esercito cubano.

Questa sconfitta gravò pesantemente sulla popolarità di Kennedy.

Invece Castro, sempre più osteggiato dagli USA, che bloccarono le importazioni di zucchero da Cuba, proseguì l’avvicinamento al blocco sovietico, il quale ne approfittò per impiantare basi missilistiche in grado di colpire qualunque parte degli Stati Uniti.

Kennedy ordinò un blocco navale dell’isola; l’Unione Sovietica fece marcia indietro e smantellò i missili da Cuba.

Nel 1963 Kennedy firmò con kruscev un importante trattato che per la prima volta limitava gli esperimenti atomici.

In politica interna Kennedy si impegnò soprattutto per superare le gravi discriminazioni che ancora colpivano i neri.

Ma il 22 novembre 1963 fu assassinato in circostanze che non sono state ancora completamente chiarite.

Un altro importante protagonista della distensione fu papa Giovanni XXIII.

Nel 1963 il papa pubblicò l’enciclica Pacem in terris con cui raccomandava al mondo e alle superpotenze la scelta della pace.


La lotta per l’indipendenza del Vietnam aveva allontanato i Francesi dalla penisola indocinese.

Si era conclusa nel 1954 con gli Accordi di Ginevra, che avevano diviso il Paese in due: la Repubblica comunista del nord e quella del Sud.

Contro il governo del Sud, la protesta si organizzò in un movimento cmounista di guerriglia, chiamato Vietcong, appoggiato dal Vietnam del Nord.

Per paura che l’intero paese divenisse comunista, gli Stati Uniti decisero di intervenire con un contingente di “consiglieri militari”.

Dal 1956 in poi gli Stati Uniti sfruttarono ogni pretesto per accrescere la loro presenza in Vietnam al fine di impedire al comunismo di espandersi in quell’area.

Nel 1956 il nuovo presidente, Johnson, decise di intervenire massicciamente, dando il via a una serie di bombardamenti su tutto il territorio del Vietnam del Nord, senza che vi fosse stata alcuna dichiarazione di guerra.

Nel 1968 i Vietcong lanciarono nel Vientam del Sud una grande offensiva, questa, anche se non ottenne significativi risultati militari, fece comprendere agli Americani l’impossiblità di giungere a una rapida vittoria.

Nel marzo del 1968 Johnson ordinò la sospensione dei bombardamenti e annunciò contemporaneamente che non si sarebbe presentato alle elezioni di quell’anno.

Il suo successore, Nixon, avviò le trattative di pace e ridusse l’impegno militare americano in Vietnam.

La guerra si concluse nel 1973 con un armistizio firmato a Parigi che prevedeva il graduale ritiro del contingente americano.

La riunificazione del paese avvenne il 30 aprile del 1975.

L’opinione pubblica americana manifestò progressivamente la propria ostilità alla guerra, anche a causa del crescente numero di morti e feriti.

La sconfitta americana portò come contraccolpo alla costituzione di regimi comunisti anche in Laos e in Cmabogia: in quest’ultimo andarono al potere i cosiddetti Khmer Rossi, un gruppo di guerriglieri comunisti.

Dopo la fine della guerra il Vietnam si era legato strettamente all’Unione Sovietica.

I Khmer Rossi diedero il via a durissime misure di repressione: un vero e proprio sterminio.


Contrò la guerra del Vietnam polemizzò duramente il Sessantotto: il movimento internazionale che esplose nel 1968 con una serie di grandi agitazioni nelle università, nelle scuole secondarie, nelle fabbriche e nelle piazze.

Ne furono protagonisti i giovani: uno scontro generazionale senza precedenti nella storia.

Per la prima volta dunque i giovani avevano una loro indipendenza economica e formavano una nuova categoria di consumatori.

Ai giovani statunitensi si affiancarono quelli europei nel manifestare un’insofferenza generale per il modno degli adulti ritenuto nevrotico e falso.

Si respirava un’atmosfera di rottura con il passato che si esprimeva anche visivamente: la moda propose la minigonna; i ragazzi incominciarono a farsi cresere i capelli e la barda, la “pillola” rivoluzionò i comportamenti sessuali.

Fu allora che milioni di giovani scesero in piazza per “contestare il sistema” e sottoporre a critica radicale le istituzione e i fondamenti stessi della società in cui vivevano.

Tutti i grandi centri universitari europei vennero toccati, ma anche l’altra parte del mondo, quella comunista, venne attraversata in molti punti dalla volontà di cambiamento: la Primavera di Praga e la rivoluzione culturale cinese furono eventi che fecero sentire ai giovani un senso di solidarietà cosmopolita.

Se in America la contestazione ebbe come obiettivi il modello di vita occidentale e la partecipazione degli Stati Uniti alla guerra del Vietnam, in Europa la presenza di forti partiti di sinistra spinse il movimento giovanile a sostenere le lotte sindacali.


Il confronto tra USA e URSS, pur senza mai sfociare in guerra aperta, si sviluppò prospettando comunque questa eventualità.

Fino a quando solo gli Stati Uniti erano in possesso di bombe atomiche, pareva non ci fossero da temere iniziative d’aggressione da parte sovietica.

Ma questa riuscì ben presto a dotarsi di bombe atomiche.

La superiorità americana nel settore nucleare portò gli esperti della Difesa del Paese a elaborare la dottrina detta della “rappresaglia totale”: gli Stati Uniti avrebbero risposto con massicci attacchi atomici, in qualunque zona del blocco comunista, a ogni aggressione, manovrata dai Sovietici.

L’Unione Sovietica lentamente riuscì a diminuire il distacco dal potenziale nucleare americano.

Una nuova strategia fu allora escogitata, la MAD: entrambe le parti dovevano mantenere una forza nuclerare sufficiente e invulnerabile per infliggere un danno inevitabile e insopportabile all’avversario che avrebbe dato il via a una guerra nucleare.

Si instaurò così “l’equilibrio del terrore”.

Gli Americani, pertanto, elaborarono una strategia alternativa: la “risposta flessibile”, secondo la quale ogni attacco sovietico si sarebbe scontrato con una risposta armata dello stesso livello.

La consapevolezza della “paralisi nucleare” indusse USA e URSS a impegnarsi, sia pure lentamente, in vista di una diminuzione o di una più remota scomparsa delle armi nucleari.

Nel 1969 Breznev e Nixon diedero il via a incontri che culminarono nei colloqui SALT, che avevano come obiettivo la limitazione reciproca delle testate nucleari.

In questo contesto grande eco suscitò nel 1975 la conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa.

Nella prima metà degli anni Ottanta il filo del dialogo sembrò interrompersi: sotto la presidenza del repubblicano Reagan, gli USA intrapresero un grande sforzo per potenziare il loro apparato difensivo progettando un sistema di difesa chiamato “scudo spaziale”.

Per qualche anno sembrò di essere tornati al clima degli anni Cinquanta.

In seguito la svolta politica in URSS favorì il riavvicinamento tra le due superpotenze.

Dopo una serie di colloqui nel 1986 Reagan e Gorbacev firmarono un accordo che prevedeva il ritiro delle testate nucleari presenti in Europa.

Nel 1988 Gorbacev annunciò di fronte all’ONU la riduzione delle truppe russe nell’Est Europeo.

L’anno dopo crollava il muro di Berlino (1989): il simbolo della Guerra Fredda.

Nel 1991 cessava di esistere la stessa Unione Sovietica.

Il mondo era entrato in una nuova epoca: quella del terzo dopoguerra.