Letteratura

Autori e date


😔 Giacomo Leopardi

Biografia

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A Recanati, nel 1798 nasce Giacomo Leopardi, primo genito di una stirpe nobile.

Il padre, il conte Monaldo Leopardi, è un erudito che attribuisce allo studio un valore sommo ed educa i propri figli a trascorrere nella ricca biblioteca di famiglia gran parte del tempo fin dalla primissima infanzia.

La madre, la marchesa Adelaide Antici, è una donna dura e severa con i suoi figli e si occupa con rigore dell’amministrazione economica della famiglia.

Per questa ragione e per la rigida educazione religiosa ricevuta, Adelaide rinuncia poco più che ventenne alla propria giovinezza e si consacra a due occupazioni esclusive: appianare i debiti familiari e dedicarsi a pratiche devote.

Giacomo si distingue molto presto dai fratelli, impiegando negli studi una passione smodata e dimostrando un talento straordinario; quando il ragazzo compie quattordici anni il prete precettore che era stato suo maestro smette le sue lezioni perchè non aveva più niente da insegnarli.

Dagli appunti trovati nelle sue carte, probabilmente annotati intorno ai vent’anni, emerge la figura di un fanciullo disposto alla fantasia, curiosissimo di tutto.

Giacomo ricorda il suo desiderio di primeggiare tra i fratelli e il suo odio per la tirannide.

Trova spazio l’apprensione per chiunque soffra, che lo fa fuggire quando sente rimproverare a voe alta qualche servitore di casa o gli fa sperare che un ragazzetto guardato dalla finestra di casa risparmi la lucciola che gli si è posata addosso.

La reclusione genera nel giovane Giacomo desideri di vedere il mondo.

Questa intensa vita interiore si esprime non soltanto nella scrittura di opere erudite e filologiche, ma anche in poesia: ha soltanto diciotto anni quando pubblica Le rimembranze.

Il giovane prova una sofferenza sempre più forte per i limiti di Recanati, è infatti una società chiusa e del tutto arretrata sul piano culturale.

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Leopardi assume una posizione molto personale a favore del Classicismo

A diciannove anni Leopardi entra in corrispondenza con il letterato Pietro Giordani.

Diventa subito per Leopardi un riferimento intellettuale e affettivo fondamentale.

Le lettere che Leopardi invia a Giordani testimoniano un’ansiosa esigenza di riconoscimento e la ricerca di quel calore umano di cui l’arida educazione familiare lo aveva privato.

In quello stesso 1817 Leopardi inizia ad annotare sentimenti e riflessioni in quaderni che denominerà “Zibaldone dei pensieri” e sarà pubblicato soltanto dopo la morte dell’autore.

Intanto però, intorno ai vent’anni, Leopardi comincia a subire nel corpo i segni della malattia.

Leopardi attribuisce questa deformazione fisica ai propri studi eccessivi, e se ne colpevolizza; egli mostra la propria amarezza per essersi guastato la salute e soprattutto l’aspetto esteriore, quello a cui gli uomini attribuiscono maggiore importanza.

In verità gli studiosi hanno ipotizzato che Leopardi sia stato colpito da una malattia batterica, la tubercolosi ossea.

Contemporaneamente ai sintomi fisici si manifestano nel giovane anche afflizioni dell’anima: gravi e ricorrenti malinconie che lo gettano in uno stato di profonda prostrazione.

A questa infelicità Leopardi tuttavia non si rassegna ma resiste, lotta, chiede aiuto alle persone che ama.

Nel luglio 1819, appena raggiunta la maggiore età, Leopardi medita la fuga e si prepara a partire da casa in piena notta, ma viene scoperto.

il fallimento da un lato accresce la sua infelicità, dall’altro rende sempre più difficile e contraddittorio il rapporto con il padre.

Leopardi mostra una profonda avversione per questa possessività paterna, ma al contempo non riesce a scindere definitivamente il suo legame con lui, e continuerà a scrivergli per tutta la vita.

L’autunno del 1819 è certamente per Leopardi il tempo dell’angoscia per la fine delle sue spernza di libertà, ma è anche la stagione in cui egli compone una delle sue liriche più intenste, L’infinito.

Nei tre anni successivi egli non smette di cercare impieghi e sistemazioni esterne con l’aiuto dei parenti e degli amici; quando sta un po’ meglio legge, scrive, fa progetti, preso da un crescente desiderio di vita e azione.

Nel novembre 1822 il padre acconsente finalmente a mandarlo a Roma, nel palazzo degli zii materni; la sua speranza è che egli accetti di diventare prete.

Roma però gli appare frivola e intellettualmente arretrata, la sua vastità lo respinge, l’ipocrisia della corte papale gli ripugna.

Nell’estate del 1823 egli ritorna a Recanati dove si ferma due anni.

Si approfondisce in quel tempo la sua riflessione filosofica, che approda a conclusioni universalmente pessimistiche.

Questa riflessione lo conduce alla scrittura di alcune prose satiriche e filosofiche, le Operette morali.

Intanto Leopardi è entrato in corrispondenza con alcuni letterati fiorentini, tra cui Viesseux.

Conosce anche l’editore milanese Fortunato Stella, che gli dà infine l’occasione di lasciare Recanati per recarsi a Milano.

Inizia così il suo lungo peregrinare tra Milano, Bologna, Firenze e Pisa, sempre alla ricerca di una sistemazione.

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Nella primavera del 1826 Leopardi conosce a Bologna la contessa Teresa Carniani Malvezzi, con la quale inizia una assidua frequentazione.

Alla fine dell’estate però la contessa tronca bruscamente gli incontri, malvisti dal proprio marito, scrivendo a Leopardi che la conversazione da sola con lui la annoia.

A Firenze, dove trascorre l’estate del 1827, Leopardi sente crescere la propria sofferenza, misurando la propria distanza dai letterati fiorentini, fiduciosi nelle riforme e nel progresso.

in settembre partecipa a un fessteggiamento in onore di Manzoni, che ha appena pubblicato I promessi sposi.

In autunno si trasferisce a Pisa dove trascorre un periodo di temporaneo sollievo: la sua salute migliora.

Nel maggio di quella stessa primaverea muore di tisi a ventiquattro anni il fratello Luigi.

Le condizioni di salute di Leopardi gli consentono di tornare a Recanati soltanto a novembre.

Il rientro a casa è per Leopardi un patimento fisico e morale. In quella triste solitudine dell’estate - autunno 1829 egli scrive alcune tra le sue poesie più importanti che costituiscono i Canti pisano - recanatesi.

Le drammatiche lettere che Leopardi invia ai suoi corrispondenti da Recanati danno luogo a una specie di generale mobilitazione: inizilamente gli amici fiorentini sperano che egli possa ottenere con le sue Operette morali un cospicuo premio in denaro. Alla fine i letterati fiorentini gli offrono il proprio sostegno economico per un anno, così da consentirgli di lasciare Recanati e trovare una stabile sistemazione a Firenze.

Nel 1830 Leopardi parte da Recanati e non vi farà mai più ritorno.

A Firenze conduce una vita meno solitaria, e frequenta le case degli amici; tra cui anche Antonio Ranieri.

Inizia quindi nell’estate del 1830 lo stretto legame di amicizia tra Leopardi e Ranieri.

A Firenze Leopardi incontra una nobildonna, la bella trentenne Fanny Targioni Tozzetti.

La donna ha la passione di collezionare manoscritti autografi di grandi scrittori e Leopardi gliene procura di rari, facendole spessi visita, e nutrendo per lei un segreto sentimento.

SI crea così una bizzarra trama amorosa: Leopardi ama Fanny, la quale ama Ranieri, che ama Pelzet.

Ispirate a questa esperienza sono le poesie del “Ciclo di Aspasia”.

A novembre del 1832 Leopardi scrive alla madre per ottenere un aiuto economico.

Il sussidio richiesto, che è minimo, viene accordato.

Ranieri rimane privo di denaro e torna in famiglia a Napoli.

Il 2 settembre 1833 i due amici partono per Napoli.

La vita di Leopardi qui è inizialmente più aperta e socievole.

Per fare fronte alle incessanti difficoltà economiche Leopardi tenta di pubblicare una seconda edizione dei Canti e una edizione ampliata delle Operette morali, ma entrambi i testi venogno sequestrati dalla censura del governo borbonico.

Sempre più ammalato, Leopardi si trasferisce nel 1836 con Ranieri e Paolina, a causa di un’epidemia di colera che rende del tutto sconsigliabile un ritorno in città, i due amici si trattengono nella villa fino al 1837.

Anche l’ultima lettera di Leopardi è rivolta al padre.

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La sua morte avviene poco più di due settimane dopo, il 14 giugno 1837 e viene descritta da Ranieri nel suo Supplemento alla notizia intorno alla vita ed agli scritti di Giacomo Leopardi.

Brani

→ “Il giardino sofferente” - 32/34

→ “L’infinito” - 53/57

→ “A Silvia” - 63/68

→ “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere” - 157/160


Lo Zibaldone

Leopardi inizia a scrivere opere erudite quando è ancora un bambino.

Una prima svolta nella sua vita intellettuale si ha nel 1815 - 1816, quando abbandona i testi eruditi e scopre le opere poetiche degli antichi; affascinato dalla loro bellezza, Leopardi le traduce.

Più tardi egli descriverà questa sua giovanile scoperta della poesia come un graduale passaggio “dall’erudizione al bello”, ma non abbandonerà mai la filologia: dotato della virtù tipica dei filologi, l’intuzione, egli interverrà più volte sui testi antichi per sanare i passi illeggibili o mancanti, proponendo congetture che troveranno conferma dalla scoperta di papiri.

Nel pensiero di Leopardi si affermerà stabilmente la forza positiva dell’immaginazione.

Leopardi ha diciannove anni quando decide di tenere memoria delle riflessioni e dei commenti che sente nascere in sé con il procedere degli studi: egli comincia dunque nel 1817 ad annotarli su fogli sparsi e senza un ordine prestabilito, ma in bella e nitida grafia.

La raccolta degli appunti e dei pensieri diventa a poco a poco un informe e smisurato scartafaccio, senza un titolo o un ordinamento, e le sue stesse crescenti dimensioni rendono sempre più difficile il recupero delle annotazioni sparse.

I temi su cui Leopardi scrive sono molteplici: note di lingua e filologia, riflessioni filosofiche e letterarie, accostate una all’altra secondo la successione spontanea in cui si presentano alla sua mente.

Questo diario del pensiero proseguirà per circa quindici anni.

Leopardi cerca ripetutamente di catalogare i pezzi sparsi ma soltanto nel 1845 uscirà postuma una raccolta di centoundici Pensieri.

La voluminosa cartella di fogli è per Leopardi tanto preziosa che egli la porta sempre con sé negli spostamenti città in città; priva di titolo e intestazione rimarrà così, inedita e non organizzata, fino alla morte dell’autore.

Il manoscritto resta nelle mani dell’amico Ranieri, che a sua volta lo lascia in eredità alla Biblioteca Nazionale di Napoli.

La parola “Zibaldone” significava ai tempi “insieme confuso di cose”, e in particolare indicava i quaderni di appunti in cui gli studiosi erano soliti annotare i passi degli autori letti.

L’opera di Leopardi non si riduce tuttavia alla semplice annotazione di passialtrui, ma si costituisce come una raccolta di pensieri originali, riflessioni, intuizioni.

La natura provvisoria dello Zibaldone è testimoniata dalla scrittura, rapida e immadiata, come per seguire il ritmo veloce del pensiero: talvolta le parole sono abbreviate.

La struttura frammentaria e asistematica dello Zibaldone si deve anche al particolare metodo di indagine intellettuale di Leopardi: egli è convinto che l’esame a cui la ragione sottopone lar ealtà non sia sufficiente a cogliere il cuore delle cose, la loro vita essenziale e autentica; essa può essere intesa soltanto attraverso uno sguardo nutrito di immaginazione e di sentimento.

Pur nella varietà dei temi dello Zibaldone si può dire che l’interesse centrale del pensiero di Leopardi sia la questione della felicità.

Il problema si pone a partire dal suo contrario, cioè dalla bruciante esperienza dell’infelicità. Egli ha vissuto da ragazzo slanci e passioni smisurati, lasciandosi trascinare dalla forza poetica delle sue letture, e ha coltivato imprecisati sogni di grandezza e di gloria, ma presto deve scontrarsi con una realtà ostile che lo ostacola e lo spegne.

Il pensiero leopardiano passa dal particolare al generale.

La conclusione è radicalmente negativa: l’infelicità è la legge universale, a cui nessun essere vivente può sottrarsi.

Strettamente connesso al problema della felicità è il rapporto tra natura e ragione.

Alla natura in generale Leopardi attribuisce spesso una volontà, una specie di divinità laica e onnipotente.

Egli considera la natura un principio buono e scorrevole e fa invece ricadere sulla ragione la colpa dell’infelicità umana.

Per questo gli uomini antichi erano più felici, perchè più immersi nella fantasia e nelle illusioni.

Secondo Leopardi inoltre l’abitudine spegne il piacere.

Nel 1824 compare all’improvviso un ragionamento radicalmente negativo, in cui la benignità della natura viene definitivamente abbandonata.


I Canti

Le poesie di Leopardi escono per la prima volta a Firenze nel 1831 in una raccolta intitolata Canti.

Una seconda edizione dei Canti corretta e ampliata esce a Napoli nel 1835.

Il titolo è volutamente generico, infatti indica per Leopardi la poesia lirica in generale.

Il genere lirico è infatti l’espressione libera dell’animo dell’uomo, proprio anche di chi non ha cultura, ed è capace di consolare attraverso la bellezza della parola.

Con il titolo vuole dunque alludere sia all’autonomia dei suoi testi rispetto alle distinzioni metriche tradizionali e alle loro regole, sia alla sua idea della poesia come espressione primaria e autentica dell’uomo.

Si possono individuare nel libro cinque gruppi di testi successivi:

  • Canzoni
  • Idilli
  • Canti pisano - recanatesi
  • ciclo di Aspasia
  • Ultimi canti

Canzoni

I temi sono patriottici: il poeta deplora la decadenza dell’Italia e la diffusa viltà dei popoli nell’età della Restaurazione.

Sono gli anni in cui considera la natura come entità benevola.

Le canzoni sono scritte in una lingua difficile, alta, densa di figure retoriche.

Il ritmo è rapido ed energico.

Idilli

Gli idilli sono poesie più private e soggettive, in cui l’infelicità dell’io lirico appare strettamente unita alle vicende esistenziali che lo riguardano.

L’unico conforto al presente freddo e ostile è il ricordo del passato, anche se triste, o la forza creatrice dell’immaginazione.

Gli idilli sono poesie più brevi delle canzoni, scritte in endecasillabi sciolti, con una lingua più semplice e una sintassi meno elaborata.

Canti pisano - recanatesi

In questi canti è continuo lo scambio tra parti descrittive e sentimentali e parti riflessive.

il lettore non ha però mai l’impressione di trovarsi di fronte al freddo ragionamento di un filosof, ma di assistere piuttosto all’autentica sofferenza di un uomo che ama disperatamente la pienezza vitale e ne conosce l’illusorietà.

La lingua di questi canti si avvicina a quella degli idilli per l’indeterminatezza lessicale e la musicalità, per la compresenza di parole semplici e letterarie.

A parte da A Silvia Leopardi elabora la cosidetta “Canzone libera”, in cui endecasillabi e settenari si succedono liberamente in base alle esigenze.

Ciclo di Aspasia

Il tema unico di questi testi è il sentimento amoroso che viene esaminato come una forza potentissima.

In questo periodo infatti Leopardi è innamorato della nobildonna Fanny Targioni Tozzetti.

Il sentimento rivela la sua natura ingannevole.


Le Operette Morali

Leopardi ha ventun anni quando comincia a pensare alla scrittura di un’operea letteraria in prosa.

Egli abbraccia infatti il proposito di scrivere un testo che contenga la sua riflessione filosofica e la diffonda tra i lettori contemporanei: non però un trattato teorico, bensì un’opera d’invenzione.

In questo stesso anno, come testimoniano gli appunto dello Zibaldone, matura il pensiero negativo riguardo alla condizione umana e al tempo presente.

Il diminutivo “operette” allude sia alla dimensione dei testi che compongono l’opera, sia al carattere apparentemente lieve e talvolta scherzoso della scrittura, mentre l’aggettivo “morali” si riferisce al loro contenuto di pensiero.

Le Operette Morali di Leopardi si presentano come un libro fuori moda, respingente per la sua filosofia negativa e scritto in una lingua tanto elevata da potere essere apprezzata da pochi.

Leopardi non resta indifferente all’incomprensione dei lettori, che anzi patisce come un vero e proprio rifiuto personale; egli infatti ha concentrato in quel libro l’essenza del suo pensiero e della sua vita.

Le incomprensioni e le critiche non scoraggiano tuttavia Leopardi, che continua a investire nel progetto le proprie energie intellettuali e a scrivere nuovi testi da inserire nelle edizioni successive.

L’edizione finale delle Operette morali costituita da ventiquattro testi, esce postuma a Firenze.

Le Operette Morali si presentano quindi come un insieme di testi di lunghezza e forma diverse, distribuiti nel libro secondo un disegno che esisteva nella intenzioni dell’autore, ma che risulta dififcile ricostruire.

Leopardi insiste sull’unità filosofica dell’opera, aggiungendo che la leggerezza della forma è soltanto esteriore, il “ridicolo” non è infatti al servizio di una vana evasione ma è un potente strumento per scardinare i luoghi comuni del pensiero.

Le operette hanno forme molteplici: novelle, racconti mitologici, monologhi, biografie fantasiose.

Molte hanno la struttura del dialogo, che consente di mettere a confronto punti di vista opposti sulla stessa questione.

I principali temi sono:

  • La teorica del piacere, desiderato e mai sperimentabile;
  • L’indifferenza della natura;
  • L’importanza dell’immaginazione.

L’elemento unificante delle operette è lo stile ironico, l’attitudine al sorriso che si applica su tutto, anche sui contenuti più tragici.

La scrittura delle operette è curatissima ed elegante, senza nessuna concessione alla facile comunicabilità.

Leopardi si propone di creare una nuova lingua italiana, libera, ricca e varia.

Nella sua scrittura egli cerca la varietà dei registri, compreso quello popolare, accosta liberatmente parole che appartengono al passato e al presente.

L’obiettivo dichiarato è di offrire agli italiani un modello di lingua illustre, adatta alla scrittura di contenuti alti, che si avvalga delle molteplici potenzialità dell’italiano.


🏛️ Giosuè Carducci

Biografia

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Nasce il 27 luglio 1835 in provincia di Lucca in una famiglia della media borghesia.

Il padre medico liberale e carbonaro trasmette al figlio idee democratiche e filorisorgimentali.

Trascorre l’infanzia in Maremma, a contatto connatura libera e selvaggia che lascia un forte segno sul suo carattere.

La famiglia si trasferisce a Firenze dove Giosue inizia a frequentare il licelo e dimostra subito una notevole inclinazione allo studio della retorica e delle lingue classiche.

Qui conosce Elvira Menicucci cui dedica i prima versi d’amore.

Carducci si dedica con impegno e passione agli studi letterari e si laurea in Filosofia e Filologia, nello stesso anno inizia a insegnare nei licei.

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Nel 1859 sposa Elivra da cui ha quattro figli: Beatrice, Laura, Libertà e Dante.

I nomi non sono casuali, dimostra infatti quanto fosse forte l’attaccamento del poeta alla tradizione letteraria.

Nel 1860 ottiene la cattedra di Letteratura italianopersso l’Università di Bologna.

Negli stessi anni si avvicina alla massoneria (inizialmente divulgare le idee illuministe ma poi si trasformano in gruppi occulti di pressione).

La delusione per il governo postunitario lo induce ad assumere posizioni apertamente giacobine e anticlericali, e poi socialiste e anarchiche.

Il 1870 segna per Carducci una svolta sul piano personale e famigliare: muoiono infatti la madre e il giovane figlio Dante, eventi che determinano un profondo e duraturo ripiegamento interiore nel poeta.

Nel 1872 Carducci inizia un’intensa realzione amorosa con Cristofori Piva - chiamata “Lidia” , una donna di grande cultura e una fervente ammiratrice dei versi carducciani.

IL carteggio intercorso tra i due amanti rivela un Carduccio dolcemnete innamorato.

Da questa relazione nasce anche un figlio, Gino.

La relazione dura fino al 1881 , anno della morte della donna.

Negli ultimi anni della sua vita il poeta si lega invece ad Annie Vivanti, una giovane poetessa.

Anche in questo caso un fitto carteggio tra i due testimonia un legame profondo, talvolta conflittuale e tormentato.

Sul piano politico Carducci abbandona progressivamente le posizioni libertarie e socialiste per avvicinarsi a quelle conservatrici e infine nazionalistiche.

Incontra personalmente i sovrani d’Italia ed è colpito dal fascino della regina Margherita di Savoia alla quale dedica l’ode Alla regine d’Italia.

Poi si guadagnerà il titolo di “Poeta Vate dell’Italia Umbertina”.

Nel 1890 è nominatore senatore, quindi Cavaliere di Gran Croce.

Nel 1906 vince il premio Nobel per la letteratura.

Carducci poi cura personalmente l’edizione completa delle sue opere.

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Carducci muore il 16 febbraio 1907.

L’ideologia e le opere poetiche

Carducci è stato definito come “poeta della storia” non solo per la presenza massiccia di fatti e personaggi storici all’interno della sua produzione poetica, ma anche perché ha copiuto una parabola ideologia che da appassionato repubblicano risorgimentale lo ha visto progessivamente aderire al nazionalismo monarchico.

I mutamenti di pensiero di Carducci testimoniano infatti un’epoca di transizione.

All’interno della poesia di Carducci si possono individuare alcuni nuclei tematici costanti:

  • il rimpianto per il mondo classico ormai perduto;
  • la rivisitazione dell’età comunale come periodo di virtù civile.
  • l’esaltazione delle passioni risorgimentali e patriottiche;
  • la nostalgia per i luoghi della giovinezza
  • l’incombere della morte sulla vita dell’uomo.

Durante il periodo in cui insegna nei lici fonda insieme ad alcuni letterati il gruppo “Amici pedanti”, ovvero un gruppo di difensori dei valori e dei modelli della poetica classica.

Inizia così la sua battaglia contro una poesia imitatrice degli autori stranieri.

In questo periodo pubblica le prime raccolte poetiche:

  • Rime
  • Juvenilia
  • Levia gravia

Sono esercizi di stile in cui ciò che conta più di tutto è la ricercatezza del linguaggio

La prima poesia carducciana che ottiene risonanza è L’inno a Satana.

Si tratta di un esempio di risoluto anticlericalismo in cui l’autore arriva a identificare Satana con il progresso moderno e la forza rivoluzionaria del lavoro umano.

Sono riconducibili al filone del classicismo anche le poesie di Giambi ed Epodi.

Successivamente le poesie di Carducci subiscono un’ulteriore evoluzione, cui contribuiscono anche le vicende biografiche.

A Lidia sono dedicate le liriche di Rime nuove: il tema dell’amore si accompagna a quello del sogno, inteso come fuga dal presente e dalla realtà contaminata e corrotta.

Allo stesso periodo delle Rime nuove risale la composizione delle Odi barbare, così intitolate perchè abbandona i metri tradizionali della poesia per riprodurre il ritmo della poesia greco - latina.

Si tratta di un esperimento metrico, che sarebbe senz’altro sembrato rozzo e “barbaro” ai poeti classici.

Con esso cerca di riprodurre il ritmo della poesia antica, basato su un sistema metrico quantitativo.

Carducci tenta con queste raccolta di restaurare la poesia aulica della classicità.

Rime e ritmi è pubblicata nel 1899 ed è la raccolta di poesie che consacra Carducci come Poeta Vate.

Nei testi di questa raccolta prevalgono le odi celebrative oppure componimenti che inneggiano al valore della patria.

Brani

→ “Alla stazione in una mattina d’autunno” - 68/72


Riassunto


🎣 Giovanni Verga

Biografia

La Sicilia è per Giovanni Verga una terra interiore, fondamento della sua formazione intellettuale e umana.

Egli vi trascorre l’infanzia e la giovanizze e ne riceve una forte impronta culturale, ma quando capisce che la sua strada è la letteratura desidera intensamente partire.

Nei suoi romanzi e nelel sue novelle la Sicilia è inizialmente assente.

Ma a un certo punto, come da una sorgente nascosta, la Sicilia riemerge, con i suoi aspri paesaggi e la sua realtà umana, spesso la più misera.

Egli tornerà in Sicialia dove vivrà per altri trent’anni ad amministrare le sue terre e a correggere i suoi scritti, deidcandosi a poche nuove opere, fino alla morte.

Questo ritorno non è vissuto da Verga come una rinuncia nè come una sconfitta, ma come un naturale ricongiungimento alle fonti della sua formazione.

La famiglia in cui nasce nel 1840 ha remote origini nobiliari, il padre vanta una discendenza baronale, mentre la madre è di provenienza borghese e ha ricevuto un’educazione intellettuale.

Le condizioni economiche della famiglia sono tuttavia assai instabili e Verga dovrà fare i conti per tutta la vita con la mancanza di denaro e il bisogno di procurarsene.

Da bambino riceve una sommaria formazione da maestri privati di appassionate idee romantiche e patriottiche.

Anche i suoi genitori hanno orientamenti antiborbonici e sostengono il processo risorgimentale.

Quando avviene l’unificazione dell’Italia (1861) Verga ha ventuno anni e aderisci volontariamente alla Guardia Nazionale.

Sul piano ideologico il giovane accompagna il sostegno politico all’unità nazionale con la difesa dei privilegi dei proprietari terrieri meridionali e sostiene queste idee in una serie di articoli politici.

A ventitrè anni, dopo la morte del padre, si convince che la sua carriera di scrittore ha bisogno di aira nuova. La destinazione ch elo attrae è Firenze, dove egli spera di trovare stimoli per la propria ispirazione.

Dopo alcuni viaggi si trasferisce nellac ittà e inizia a frequentare gli ambienti intellettuali e i salotti letterari più in vista, in cui viene accolto con interesse.

Conosce Luigi Capuana, scrittore siciliano che diventerà l’amico di tutta la vita, e stringe varie relazioni amorose, ottenendo tra le donne apprezzamenti lusinghieri.

Per tutta la vita Verga giurerà il proprio amore a numerose amanti, riffiutando però di impegnarsi stabilmetne e sollevando talvolta le aspre collere dei mariti offesi.

L’assillo economico tormenterà lo scrittore per tutta la vita, assumendo la forma di una vera e propria ossessione: nelle sue lettere sono frequenti i riferimenti al denaro, i calcoli minuti dei diritti editoriali e l’esibizione di una estrema parsimonia.

Le prime opere di Verga non suscitano particolare interesse, mentre per quanto riguarda Nedda, una novella pubblicata da Verga sulla “Rivista italiana”, in cui per la prima volta l’ambiente è siciliano, i lettori e la critica si dimostrano interessati.

Nedda rappresenta una innovazione tematica, ma i modi della narrazione sono ancora tradizionali, sul modello manzoniano, con un narratore onnisciente estraneo al mondo rappresentato che giudica e commenta i fatti dal proprio punto di vista.

La vera e propria svolta avviene quattro anni dopo con Rosso Malpelo, la prima novella “verista” di Verga, in cui cambiano radicalmente i modi della narrazione e il racconto viene affidato alle voci dei personaggi del popolo, senza l’intervento giudicante di un narratore esterno.

Il modello a cui Verga si ispira è quello del Naturalismo francese di Emile Zola.

L’interesse del pubblico per le vicende ambientate nel Sud Italia è favorito in quel tempo anche all’inchiesta sulla “questione meridionale” di Sonnino.

Le grandi opere veriste di Verga occupano lo spazio di circa un decennio, da Rosso Malpelo a Mastro-don Gesualdo, ma questa svolta poetica non è da considerarsi stabile né definitiva: accanto ai titoli veristi di romanzi e novelle lo scrittore continua infatti nello stesso periodo a pubblicare opere di carattere più tradizionale

Accanto ai romanzi, come abbiamo visto, Verga inizia con Nedda a pubblicare novelle su riviste, per le quali è più facile e rapido ottenere un compenso economico; le riunisce poi periodicamente in raccolte, tra le quali le più importanti e le più vicine alla poetica naturalista di Zola sono Vita dei campi e Novelle Rusticane.

Subito dopo il successo di Nedda, Verga ha iniziato a lavorare a un “bozzetto marinaresco” intitolato Padron ‘Ntoni, richiesto dal suo editore per soddisfare la predilezione del pubblico per i temi popolari e siciliani.

Tuttavia, dopo la lettura dei testi di Zola, lo scrittore decide di trasformare la novella in un romanzo e lo intitola I Malavoglia.

Nelle sue intenzioni l’opera dovrebbe essere la prima di una serie di cinque romanzi, che egli vorrebbe riunire sotto il titolo comunie I vinti per rapprsentare la medesima condizione di sconfitta esistenziale in tutte le classi sociali, da quelle più misere a quelle privilegiate.

Il progetto si interrompe però dopo il secondo romanzo, Mastro-don Gesualdo.

I Malavoglia ottengono inizialmente uno scarso successo, dovuto alla lontananza dal gusto del pubblico della poetica verista, e ciò induce Verga a ritornare ai temi mondani con un romanzo tradizionale di ambiente borghese.

Nello stesso 1882, Verga ha l’occasione di fare la conoscenza di Zola.

L’incontro non dà seguito a un’amicizia perchè i due autori sono ideologicamente molto lontani.

Mentre si dedica all’elaborazione della sere dei Vinti, Verga lavora anche in altre direzioni, ricavando dalle sue novelle adattamenti per il teatro.

Al Carignano di Torino ottiene un grande consenso la rappresentazione di cavalleria rusticana, interpreata dalla celebre Eleonora Duse.

Nel 1890 il musicista Pietro Mascagni ricava dalla stessa vicenda un melodramma di successo, avvalendosi di un libretto non autorizzato dall’autore; Verga ricorre al tribunale ottenendo nel 1893 un consistente riscarcimento in denaro.

Dopo le prime due raccolte di novelle, Verga ne pubblica diverse altre.

Negli ultimi anni della sua vita lo scrittore si dedicherà soprattutto alle riduzioni teatrali e cinematografiche delle sue opere, senza però ripetere il successo di Cavalleria rusticana.

Con la vittoria processuale contro il musicista risolve finalmente i suoi problemi economici e decide di tornare in Sicialia.

In quello stesso anno, 1893, la rivolta dei cosiddetti “fasci siciliani”, gruppi di contadini e minatori in lotta da due anni contro lo sfruttamento dei padroni, viene repressa dal governo con decine di morti.

Anche di fronte a queste violenze Verga si schiera contro i manifestanti e plaude alla repressione, Egli non è disposti infatti ad attribuire al popolo alcuna motivazione ideale, considera naturale la gerarchia che divide la classi sociali ed è convinto che la legge dell’utile sia il motore di ogni rapporto umano.

Negli ultimi anni della sua vita si schiera con i nazionalisti a favore delle imprese coloniali italiane e per l’itnervento in guerra dell’Italia e guarda con simpatia all’ascesa del Fascismo, cui non fa in tempo ad aderire perchè muore all’improvviso di trombosi lo stesso anno della marcia su Roma (1922).


La poetica del Verismo

Pur essendo vissuto per molti anni nelle grandi città del Centro - Nord, Verga resta fortemente legato ai luoghi e alle tradizioni culturali della Siciali.

In particolare si sente estraneo alla modernizzazione economica a cui il Nord Italia si è avvicinato dopo l’unificazione del paese.

Egli appartiene infatti alla media proprietà terriera della provincia siciliana, avversa alla politica protezionistica della Sinistra storica che favorisce le attività imprenditoriali del NOrd e ostacola gli interessi dei latifondisti meridionali.

Al conservatorismo economico si aggiunge in Verga la frustrazione derivata dal fallimento degli ideali risorgimentali, da ragazzo egli aveva sostenuto il processo di unificazione dell’Italia schierandosi con le truppe di Garibaldi, ma progressivamente si era accentuata la sua estranietà nei confronti dei partiti al governo del paese.

Negli anni della maturità la sua visione del mondo si incupisce: tende ad evidenziare gli aspetti negativi delle relazioni sociali tra gli uomini, che considera condizionate in primo luogo dalla legge dell’utile economico.

Gli individui di ogni classe sociale gli appaiono inevitabilmente coinvolti in una lotta brutale per l’affermazione di sè: si tratta ai suoi occhi di una legge naturale, che non dipende dalle condizioni storiche ed è perciò immutabile.

Verga appare un isolato, estraneo ai valori condivisi del suo tempo e sospettoso nei confronti di ogni progresso economico o sociale.

Di fronte a lui non si apre alcuna prospettiva di riscatto, né storico né trascendente, e la sua visione del mondo appare assoggegata a un pessimismo materialista e assoluto.

La consapevolezza della degradazione e della miseria delle popolazioni del Sud accresce il suo pessimismo, senza fare però vacillare in lui la convinzione che la legge del più forte valga a ogni livello sociale e che le vittime stesse siano sempre pronte a esercitare la loro prepotenza su chi sta al di sotto di loro.

Poichè considera la violenza e la sopraffazione dati naturali e immodificabili dell’animo umano, egli si limita a reistrarle con lo sguardo oggettivo dello scienziato.

La tecnica narrativa di Verga ha adottato fino a questo momento è quella tradizionale (narratore esterno e onnisciente); il passaggio ai temi “siciliani” non costituisce una svolta di poetica perchè la tecnica narrativa è ancora quella proprioa della letteratura romantica.

Intorno al 1876 la lettura dei romanzi di Zola è per Verga una specie di rivelazione; egli ammira la sua capacità di rappresentare il modno in modo diretto e largamento documentato.

L’interesse per la recente letteratura francese è condiviso entustiasticamente anche da Capuana, il primo a usare nei suoi saggi critici la parola “Verismo” per descrivere l’intenzione degli scrittori italiani di imitare i romanzieri naturalisti francesi e documentare la realtà “dal vero” rinunciando all’espressione diretta di giudizi e interpretazioni da parte del narratore

Il termine “Verismo” sarà successivamente usato dai critici per designare le caratteristiche specifiche dell’arte di Capuana e di Verga e distinguerle da quelle del Naturalismo.


Le modalità narrative veriste sono:

  • Prevalenza dei fatti minori e rinuncia al romanzesco: L’intreccio dei romanzi veristi è costituito da fatti ordinari, cioè dagli eventi minori ch eoccupano la vita di ogni giorno.
  • Arretramento del narratore onnisciente, focalizzazione variabile, straniamento: L’obiettivo fondamentale delle opere veriste di comuntare i fatti così come sono è ottenuto attraverso la cosiddetta “tecnica dell’impersonalità”, tende cioè a scomparire la figura del narratore tradizionale onniscente che offre al lettore una interpretazione sui fatti e sui personaggi.
  • Minime descrizioni dell’ambiente: Per realizzare compiutamente l’obiettivo dell’impersonalità Verga riduce anche sensibilimente le descrizioni dell’ambiente, il narratore popolare dei Malavoglia ad esempio parla come se chi legge fosse presente sulla scena e conoscesse bene i luoghi dell’azione.
  • Assenza di una descrizione introduttiva dei personaggi: Nelle opere veriste i personaggi entrano in scena direttamente, con pochissime parole di introduzione da parte del narratore.
  • Uso di una forma adatta alla materia da rappresentare: La tecnica versita richiede una lingua adeguata all’ambiente e ai personaggi rappresentati. nel romanzo I Malavoglia, ad esempio, la narrazione è condotta in una lingua che ha i caratteri del parlato siciliano.

Benchè sia ben consapevole del nuovo orientamento che intende seguire nell’arte della narrazione, Verga non scrive un saggio che contenga i principi ispiratori e le regole di composizione del romanzo moderno, ma affida le sue dichiarazioni di poetica a pochi scritti che si trovano a metà tra riflessione teorica e letteratura.

La sua stagione “verista” dura poco più di dieci anni.

La sua evoluzione letteraria non segue pertanto un percorso lineare, ma è fatta di sperimentazioni e ritorni indietro, fino al silenzio degli ultimi anni.

Brani

→ La Prefazione ai Malavoglia - 112/114


I Malavoglia di Verga e L’Assommoir di Zola

Verga diventa verista dopo la lettura di Zola, in particolare dopo avere conosciuto il romanzo L’Assommoir.

La sua ammirazione per l’autore francese non verrà mai meno e si tradurrà in un proposito di imitazione delle tecnihce narrative naturaliste che egli, soprattutto nei Malavoglia, realizzerà in modo ancora più rigoroso rispetto al modello.

Verga accetta del Naturalismo francese l’attenzione per i dati reali e la ocncezione della vita come una lotta per l’esistenza, ma non ne condivide la visione fiduciosa.

Del positivo egli respinge l’idea che la scienza possa indirizzare l’umanità verso un progresso certo e inarrestabile, e ugualmente si sente estraneo alle idee democratiche e socialiste di Zola e al suo impegno a migliorare la condizione sociale delle classe popolari.

Zola racconta la storia di una famiglia nel corso delle successive generazioni: ogni romanzo segue uno o più personaggi della famiglia, in diversi ambienti sociali.

Verga si propone un progetto simile, ma con una scala ascensionale: i suoi personaggi appartengono a classi sociali via via più elevate.

Sia Zola che Verga realizzano romanzi il cui intreccio è costituito da fatti che appartengono alla vita di tutti i giorni e rinunciano ai toni enfatici anche quando descrivono eventi tragici.

Nell’Assommoir la reazione di Gervaise, ormai aloclizzata, alla morte del marito Coupeau, ucciso dall’alcol dopo quattro giorni di delirio e conflusioni, viene descritta attraverso uno sguardo crudele e irrisorio, senza accenti di commozione.

Nell’Assommoir la descrizione dell’ambiente è ricca di dettagli, tuttavia, per rispettare il principio dell’impersonalità, lo scrittore ricorre allo stratagemme di affidarla a un personaggio nuovo rispetto al luogo dell’azione, che da una finestra o da una vetrina ne osserva ogni particolare.

Nei Malavoglia invece le descrizioni sono ridotte al minimo.

Mentre nell’Assommoir i personaggi vengono introdotti dalla voce narrante, nei Malavoglia compaiono in scena direttamente o con minimi cenni di presentazione.

Per raffigurare in modo realistico gli ambienti dei suoi romanzi, Zola si avvale del gergo quotidiano degli operai parigini; accanto a questa però usa anche un linguaggio di livello medio proprio della classe borghese.

Verga invece si avvale di una lingua omogenea, che mantiene caratteristiche proprie del parlato popolare a tutti i livelli della narrazione, tanto che il lettore ha l’impressione di immergersi integralmente nella realtà rappresentata, come se a narrare i fatti fossero gli stessi protagonisti.

Brani

→ “La partenza di ‘Ntoni e l’affare dei lupini” - 151/159

→ “Il naufragio della Provvidenza” - 161/165

→ “Padron ‘Ntoni e il giovane ‘Ntoni: due visioni del mondo a confronto” - 166/168


I Malavoglia

I Malavoglia è considerato il capolavoro di Verga, l’opera più alta del suo periodo verista.

La vicena riguarda una famiglia di pescatori, ambientati in un paese siciliano subito dopo l’Unità d’Italia, che va incontro alla rovina economica per aver cercato fortuna con il commercio e avere perso un carico di merci durante una tempesta.

L’intenzione di Verga è quella di raffigurare in modo veritiero gli effetti che i mutamenti sociali e le ambizioni individuali generano in una civiltà arcaica, investiti e travolti dai cambiamenti della modernità.

Verga precisa che si tratta di effetti tragici, che il progresso sparge rovina, e che egli intende volgere il proprio sguardo sui “vinti”.

Il suo proposito è di compiere uno “studio” della realtà contemporanea sulla base dell’idea guida del conflitto tra vecchio e nuovo, fra tradizione e modernità.

Egli afferma di voler rinunciare alla funzinoe giudicante dell’autore, cioè al narratore onniscente.

Si deve allora concludere che I Malavoglia siano un romanzo - documento, sono un’opera complessa e sfuggente, ricca e contraddittoria, che va ben al di là delle intenzioni programmatiche dall’autore.


Il nonno riassume in sé il modo di vivere e i valori che appartengono alla tradizione.

Il giovane è invece attratto dalla modernità, tuttavia l’irrequietezza del giovane apre nell’universo culturale del nonno una crepa irreversibile, è il segno della fine del mondo.


La prima idea dei Malavoglia nasce in Verga subito dopo il successo della novella Nedda, la prima ambientata in sicilia.

Dopo la lettura dell’Assommoir di Zola, Verga elabora la poetica verista e decide di trasformare la novella incompiuta in romanzo.

Il romanzo esce nel febbraio 1881 ed è un insuccesso.

Ma Verga si dichiara convinto della validità della sua scelta verista, che presenta la realtà nella sua asciuttezza e senza gli effetti drammatici propri del romanzesco.


Il romanzo è dunque la storia di una famiglia, ma anche quella di una intera comunità.

Intorno ai Malavoglia si muovono infatti moltissimi altri personaggi, che rappresentano i principali mestieri e ruoli sociali del paese.

Ciascuno è identificato da un nomignolo che ne fissa ironicamente una caratteristica principale, per somiglianza o per opposizione, come è d’uso nella tradizione popolare siciliana.

L’ambiente del paese è ristretto: poichè tutti si conoscono, nessuno è al riparo da pettegolezzi e maldicenze e in quello spazoi chiuso il giudizio popolare è talmente importante da condizionare i destini individuali.

Rispetto alla maggior parte dei compaesani, i Malavoglia sono portatori di un sistema di valori autentico e disinteressato e non vengono mai raffigurati in atti di maldicenza o meschinità.

Essi rappresentano nel romanzo il tenace attaccamento ai valori del lavoro e della tradizione, insidiati dai cambiamenti della modernità.


Il desiderio di cambiamento e miglioramento appare nel romanzo come la causa principale della rovina dei protagonisti.

Tuttavia Verga sa che il nuovo è destinato comunque a imporsi, al di là delle responsbilità dei singoli.

La raffigurazione dello spazio è sia realistica, sia affettiva, in quanto gli elementi del paesaggio sono spesso trasfigurati dai sentimenti provati dai protagonisti.


I fatti raccontati nel romanzo occupano circa quindici anni.

In questo arco di tempo accadono le vicende della famiglia Malavoglia e quelle della gente del paese, i grandi episodi e cambiamenti politici ed economici del tempo storico che si intrecciano con la vita locale e la condizionano: la leva militare obbligatoria del nuovo Stato unitario; la battaglia navale di Lissa; l’epida di colera; la costruzione della ferrovia.

La storia e la modernità entrano tuttavia nel tempo del paese soltanto marginalmente, attraverso vaghi richiami, e sono percepiti come qualcosa di lontano, minaccioso ed estraneo alla successione monotona degli eventi paesani.


Contrariamente a quanto faceva Zola, che prima di scrivere un romanzo si immergeva per mesi nell’ambiente da rappresentare, studiandone dal vivo le caratteristiche, Verga scrive I Malavoglia a Milano.

Egli intende infatti compiere una ricostruzione intellettuale della realtà, osservandola da una certa distanza.

I Malavoglia sono un romanzo verista non soltanto perchè raffigurano in modo realistico un piccolo paese del Sud Italia, ma soprattutto per i modi della narrazione: la modalità narrativa “dal basso” e la lingua mimetica che riproduce il parlato e le cadenze dialettali siciliane.

La voce narrante dei Malavoglia è anonima, non corrsiponde a quella di un personaggio, e parla dall’interno.

Questa voce esprime spesso simpatia nei confronti dei malavoglia.

Ad essa si mescola però quella dei paesani, maligna e pettegola, ispirata a una logica utilitaristica e cinica.

Questa mescolanza di voci e di prospettive genera l’effetto di un coro popolare il quale giudica la realtà invariabilmente dall’interno e in modo parziale.

E’ il lettore a doversi districare tra la molteplicità e la contraddittorietà dei giudizi espressi, perchè le voci sono collocate tutte sullo stesso piano e nessuna risulta privilegiata.


Il realismo della rappresentazione è garantino inoltre dalle scelte linguistiche.

Anche in questo caso Verga non sceglie di raffigurare in modo esatto e documentario la realtà, ma compie un consapevole lavoro di ricostruzione letteraria: rinuncia a usare il dialetto e inventa un italiano dialettale in cui la cadenza delle frasi e le improprietà grammaticali imitino il modo di parlare del popolo siciliano.


Novelle rusticane

All’inizio del 1883 vengono pubblice le Novelle rusticane, una raccolta di dodici novelle ispirate alla poetica verista.

Verga le compone in un momento di difficoltà economica.

Diversamente da Vita dei campi, le Novelle rusticane non mettono in scena eventi drammatici o personaggi che spiccano sugli altri, ma rappresentano la vita quotidiana più ordinaria e ripetitiva, in cui le vicende appaiono prive di coloriture sentimentali e in cui raramente si distinguono figure individuali; anche la morte viene ridotta a un fatto qualunque, di cui contano le conseguenze economiche più che quelle effettive.

Lo sguardo dello scrittore non si limita a rappresentare la vita arcaica ed elementare delle classi inferiori, ma scruta nelll’ambiente della piccola borghesia paesana, per farne emergere gli inganni e i soprusi, nascosti e dissimulati ma non meno violenti.

Nella visione di Verga tutti gli uomini sono impegnati in una lotta senza sosta per il predominio e vanno incontro al medesimo destino di sconfitta: in un mondo dominato dalla mancanza di ogni valore positivo e dalla fatale ripetitività delle sorti non sono posisbili prospettive di riscatto, per nessuno.

Le Novelle rusticane, con I vinti, condivide la visione pessimistica e la sfiducia nel progresso.

Per garantire l’obiettività della rappresentazione Verga si propone di applicare la tecnica dell’impersonalità, cioè di rinunciare allo sguardo esterno del narratore per adottare un punto di vista e un linguaggio interni all’ambiente raffigurato.

L’autore compie cioè un passo indietro e lascia che i personaggi si esprimano secondo i criteri di valore e le forme linguistiche loro propri, senza alcuna mediazione.

Tuttavia lo scrittore, che nella rappresentazione del mondo arcaico delle calssi più basse ha realizzato questo proposito attraverso la voce di un coro popolare indifferenziato, si trova ora a dovere individuare una modalità narrativa che restituisca la molteplicità delle sfumature di pensiero e i contrasti ideologici anche dell’ambiente borghese, più complesso, sfumato e ipocrita.

Egli tenta di realizzare questo obiettivo attraverso il montaggio di voci e punti di vista multipli e spesso opposti.

Vengono così smascherati i miti risorgimentali del Progresso, del Benessere, della Giustizia e della Libertà, che svelano il loro carattere di copertura dell’unico reale obiettivo di tutti: l’affermazione di sè e del proprio interesse materiale.


Riassunto


👶🏼 Giovanni Pascoli

Biografia

Nasce a San Mauro di Romagna nel 1855, quarto di dieci figli, in una famiglia non ricca ma di condizioni economiche discrete grazie al lavoro del padre, amministratore di una grande tenuta nobiliare.

All’età di sette anni viene madnato in un prestigioso collegio dove apprende in modo eccellente le lingue classiche.

Nel 1867 avviene però un evento drammatico, destinato a modificare le sorti della famiglia e a segnare in modo definitivo l’esistenza di Pascoli: il 10 agosto di quell’anno suo padre viene ucciso da due sicari in un agguato.

Negli anni immediatamente successivi si sussegguono altri lutti dolorosi: muoiono la sorella maggiore, la madre e il fratello.

Il peggioramento delle condizioni economiche rende impossibile per Pascoli restare a Urbino ed egli termina gli studi a Firenze in una scuola meno costosa.

Grazie al conseguimento di una borsa di studio si iscrive alla facoltà di Lettere di Bologna, dove insegna Giosue Carducci.

Nel 1876 gli viene però revocata la borsa di studio e tale perdia, unita alla morte improvvisa del fratello, rende estremamente precarie le sue condizioni economiche e gli impedisce di pagare le tasse universitarie per l’anno successivo.

Tuttavia continua a frequentare le lezioni come libero uditore e riceve un appoggio dallo stesso Carducci, che lo raccomanda come supplente al ginnasio.

Nello stesso anno, una nuova manifestazione di dissenso gli costa tre mesi di reclusione.

Le sue condizioni economiche migliorane perchè riesce a ottenere nuovamente una borsa di studio e nel 1882 egli consegue finalmente la laurea.

Pascoli, che non si era mai allontanato dall’Emilia-Romagna, vive con grande spaesamento il suo primo incarico di professore di latino e greco in un liceo di Matera.

Nel 1884 Pascoli ottiene il trasferimento a Livorno: è l’occasione per affittare una villa in cui risiedere con le due sorelle nubili, con le quali tenta di ricostruire il “nido” familiare.

La scrittura di poesie iniziata durante il periodo universitario si intensifica e prende la forma di collaborazioni con riviste.


Tra Pascoli e d’Annunzio vi è un rapporto che oscilla continuamente tra stima e avversione, soprattutto da parte di Pascoli, che vive un tormentato senso di invidia per la maggiore fama riconosciuta al collega ed è ossessionato dalla paura di subire plagi da lui.

I rapporti si incrinano quando d’Annunzio chiede a Pascoli una serie di esempi su come tradurre metricamente in italiano un coro della tragedia greca Antigone, e Pascoli tace per molti mesi.

Quando gli risponde non manda i versi richiesti, ma spiega di avere intenzioni di redigere un saggio teorico sull’argomento.

A questo punto i contatti tra i due sono sospesi e tra il 1900 e il 1903 si moltiplicano le manifestazioni di acredine da parte di Pascoli, che continua a temere plagi e manipolazioni.

E’ d’Annunzio a fare il primo passo verso la riconciliazione, quando dedica a Pascoli la poesia posta alla conclusione della raccolta Alcyone.

Pascoli reagirà alternando momenti di disponibilità e stima ad altri di diffidenza e riserbo.


Nel corso degli anni Novanta la carriera di Pascoli sembra finalmente decollare.

Scrive anche per “Il Marzocco”, sul quale trovano posto le sue più importanti riflessioni di poetica, poi èdite integralmente con il titolo Il Fanciullino.

Nel 1895 avviene una svolta nella vita privata di Pascoli: la sorella Ida si fidanza e dopo pochi mesi si sposa, determinando la rottura di quel “nido” familiare.

La scelta di Ida provoca un grande turbamento nel poeta e soprattutto teme il vincolo sempre più stretto che si verrà a creare con Maria.

Nel 1896 Pascoli prende contatti per lettera con una facoltosa cugina, Imelde Morri, alla quale in segreto propone le nozze.

La cugina accetta, e Pascoli tenta di organizzare tutto in poche settimane all’insaputa della sorella.

Venuta a conoscenza del progetto, Maria cerca di ostacolarlo mettendo i due promessi sposi uno contro l’altro e Pascoli rinuncia al matrimonio.

Pascoli e Maria affittano la casa di Casatelvecchio di Barga che diventa il rifugio più caro.


Pascoli riesce a diventare docente universitario nel 1895, a Bologna, ma non è del tutto soddisfatto dell’incarico, perchè si tratta di un insegnamento che considera secondario rispetto ad altri.

Accetta quindi l’offerta di insegnare Letteratura latina a Messina e si trasferisce in Sicilia.

Qui, dopo un periodo difficile, Pascoli si inserisce nel tessuto intellettuale della città.

Dopo una parentesi all’Università di Pisa, dove lavora alla stesura dei Canti di castelvecchio, per Pascoli giugne finalmente l’occasione di ricoprire la cattedra di Letteratura italiana da lui tanto desiderata: è chiamato infatti a Bologna per subentrare a Carducci.

Nell’ultima fase della sua vita è sollecitato a intervenire nella vita pubblica italiana dal suo ruolo universitario, come pure dall’influenza del modello carducciano e dannunziano del poeta-vate, ossia dell’intellettuale che si pone quale guida della società e che esalta figure da imitare.

Le ultime raccolte sono dunque caratterizzate da una poesia di tipo risorgimentale, in cui celebra modelli di umanità come Garibaldi: escono Odi e inni, Canzoni di re Enzio, i Poemi italici.

Nello stesso anno tiene a Barga un discorso poi pubblicato come La grande proletarie si è mossa, in cui giustifica la guerra coloniale in Libia: è l’approdo finale del suo socialismo.

Pascoli muore nel 1912 per una malattia al fegato.


Il fanciullino

Il saggio intitolato Il fanciullino esce a puntato sulla rivista “Il Marzocco” nel 1897, ampliato e rielaborato viene poi inserito da Pascoli nella raccolta Miei pensieri di varia umanità, infine nei Pensieri e discorsi.

Nella forma definitiva è un testo inventi brevi capitoli, in cui Pascoli espone la sua poetica, ossia le sue idee su che cosa sia la poesia e su quali siano i compiti del poeta.

L’autore non procede con rigore argomentativo, ma con eloquenza appassionata e con immagini simboliche, delineando una concezione della poesia come attività non razionale, spontanea, che nasce dalla fantasia e dall’immaginazione.


Per rappresentare la sensibilit poetica Pascoli si serve del simbolo del “fanciullo”, un essere che guarda al mondo in modo ingenuo, con lo stupore di chi vede ogni cosa per la prima volta; grazie all’intuizione spontanea il “fanciullo” sa immaginare e cogliere aspetti inconsueti della realtà senza le barriere e i condizionamenti dettati dalla ragione.

Questa creatura è presente in ogni persona: nell’infanzia coincide con il bambino, mentre nell’età adulta viene messa in disparte, perchè l’uomo maturo adotta uno sguardo razionale sul mondo, è attento ai propri obiettivi e doveri, si esprime in modo serio e convenzionale, senza dare spazio all’immaginazione e fantastia.

Nell’uomo tuttavia il “fanciullino” non scompare: resta oresente in ciascuno e può riemergere, manifestandosi con reazioni spontanee e imprevedibili davanti ai fatti della vita.


Il “fanciullino” possiede due qualità straoirdinarie: la capacità di “vedere” e quella di “dare il nome alle cose”.

Senza l’assillo del tempo e degli obblighi da rispettare, egli agisce seguendo il proprio istinto e il proprio stupore, soffermandosi a vedere, ascoltare, toccare ogni cosa.

Nel guardare assume punti di vista inediti, portando in primo piano un particolare apparentemente insignificante per ammirarlo, oppure ponendosi a una certa distanza per vedere ciò che altrimenti, per le sue eccessive dimensioni, sfuggirebbe.

Inoltre scopre affinità e legami tra le cose, mettendo in relazione elementi anche molto lontani tra loro.

Si tratta evidentemente di una fanciullezza non realistica ma ideale, che rappresenta l’infanzia stessa del mondo, quell’età antica mitizzata nella quale vi era un rapporto spontaneo e immediato tra l’uomo e la natura.


Sebbene il “fanciullino” sia presente in tutti, soltanto il poeta è in grado di conservarne davvero lo spirito e di dargli voce, attraverso la poesia.

Per Pascoli la poesia è uno stato di illuminazione interiore, che dipende dalla capacità del soggetto di cogliere, all’esterno o all’interno di sé, un dettaglio sempre, un elemento anche banale sfuggito a tutti.

Il fatto che il poeta volga la sua attenzione agli oggetti più comuni e semplici non implica che egli sia un uomo ingenuo o incolto.

Pascoli è insegnante di liceo e poi professore universitario, egli non intende certo svalutare la formazione culturale quando indica la via della semplicità, ma assume piuttosto una posizione polmeica nei confronti della tradizione letteraria, appesantita dalla mania dell’”accademismo”, della retorica, della forma fine a se stessa.

Il poeta è dunque colui che comprende come l’oggetto più umile possa rivelarsi qualcosa di molto prezioso: perchè questo avvenga occorre uno sguardo attento, ma anche l’”arte del togliere”.

Nel Fanciullino Pascoli riprende a sviluppa questo aspetto: il poeta conosce bene il patrimonio retorico e letterario ma sa rinunciare a tutti gli ornamenti inutili, si limita ad ascoltare e a comuincare ciò che il suo “fanciullino” interiore gli suggerisce.

Inoltre la poesia non deve perseguire intenzionalmente alcuno scopo pratico o sociale: non ne ha bisogno perchè è utile di per se stessa, per il solo fatto di esistere.

Pascoli sostiene che la capacità di comprendere la poesia è in tutti però avverte con chiarezza che soltanto pochi sono in grado di far rivivere dentro di sé il “fanciullino” e dargli voce.

Sotto questo aspetto pAscoli non è troppo dissimile da d’Annunzio: sia pure in modo diverso, entrambi rivendicano il ruolo del poeta come mediatore indispensabile per l’interpretazione del mondo e la formazione dell’uomo.


Myricae

Myricae esce per la prima volta nel 1891 come opuscolo per le nozze di un amico, ma Pascoli tel tempo aggiunge, rielabora testi, progetta raggruppamenti interni tra i componimenti, accentua tematiche e atmosfere che gli stanno a cuore: l’edizione definitiva è quasi un altro libro, venutosi a formare nel corso di dodici anni, durante i quale le iniziali ventidue poesie sono diventate centocinquantasei.

Il titolo è ispirato a un verso di Virgilio, in cui il poeta latino dichiara di volersi allontanare dal tema agreste che contraddistingue la raccolta per trattare un argomento più alto con uno stile più elevato.

Il verso virgiliano assume significato opposto: vi si afferma dunque che le Myricae, o “tamerici”, piante modeste e comuni, piacciono e sono apprezzate, così come la vita umile di campagna che esse rappresentano.

La semplicità delle poesie di Pascoli tuttavia è soltanto apparente, poichè proprio gli oggetti più comuni pososno alludere a temi generali che riguardano l’esistenza umana, la presenza del male, il mistero del dolore e della morte.


E’ possibile individuare nella poesia due discorsi paralleli, l’un generato dal dato letterale del testo, l’altro da ciò a cui esso allude.

Occorre dunque uno sforzo interpretativo da parte del lettore, il quale deve rivolgere la sua attenzione a tutti gli elementi del testo e coglierne le suggestioni.

Alcune immagini assumono una valenza precisa, tanto che si può parlare di simboli ricorrenti, perchè il legame tra l’oggetto e l’idea si ripropone identico e resta inalterato in più testi.

Altre immagini invece costituiscono simboli più difficili da decifrare, perchè assumono significati diversi a seconda dei contesti.

Anche l’io lirico offre un’immagine di sé non univoca: talora si rappresenta come un padre, talore invece assume l’atteggiamento di un bambino segnato dal dolore e dalla solitudine, che cerca compassione.

Ugualmente i famigliari morti sono figure desiderate e rimpiante, ma da cui il poeta non riesce a liberarsi, tanto che sente la necessità di offrire loro tributi di memoria per tenere a bada la propria angoscia.

In Pascoli affiora l’oscuro senso di colpa di essere sopravvissuto alla morte dei propri cari.


I poeti classici che sono oggetto di imitazione diretta da parte di Pascoli nelle poesie in latino (Omero, Virgilio, Catullo e Orazio) costituiscono un significativo repertorio tematico, lessicale e stilistico anche per la sua poesia in lingua italiana.

Allo stesso modo, Dante e Leopardi sono citati in modo esplicito, oppure recuperati per affinità tematiche.


Poichè il rapporto di Pascoli con la realtà è inquieto, non più guidato nè da valori romantici nè dalla fiducia nella scienza, le forme attraverso le quali si esprime non possono che essere nuove.

I critici hanno usato la formula di “accordo eretico” con la tradizione per indiciare come Pacoli sia fortemente radicato nella sua epoca, ma al tempo stesso imprima una svolta alla lingua della tradizione, soprattutto sul piano fonico, lessicale e sintattico.

Caratteristica delle Myricae è la brevità. Spesso mancano i nessi logici espliciti, di tipo temporale o casuale; il discorso procede con accostamenti improvvisi, salti inattesi e ritorni all’indietro.

All’assenza di nessi logici supplisce in qualche modo la forte presenza di legami sonori all’interno del testo, attraverso rime, anche interne.

Sono ricorrenti le onomatopee.

Si è parlato per Pascoli di un vero e proprio Fonosimbolismo, ossia la capacità delle sillabe di diventare portatrici di significato semplicemente in base al loro suono.

Hanno particolare rilevanza le metafore e le analogie, che esprimono associazioni imeddiate e intuitive compiute dall’io lirico tra gli oggetti.

Vi è una presenza importante di sinestesie, che rimandano all’idea baudelairiana e simbolista per cui la natura è un tutto unitario in cui si celano segrete corrispondenze.

Sul piano lessicale troviamo alcune innovaioni all’interno di un tessuto linguistico ancora abbastanza uniforme: la tendenza a mescolare alto e basso, termini dialettali e lingua letteraria.

Particolarmente significata è però la capacità di accogliere la prosa nella poesia, inserendo nei versi frammenti di dialogo e voci del linguaggio quotidiano.

Sul piano metrico Pascoli rispetta la tradizione per la scelta di forme chiude, ma si mostra innovativo nell’adottare versi poco comuni e strutture metriche note, ma desuete.

Il ritmo frammentato di Pascoli gli permette di evidenziare il particolare, il dettaglio, senza che tuttavia vengano meno l’unità e la regolarità della forma.


E’ possibile inoltre identificare alcune opposizioni ricorrenti, che si riproporranno in tutta l’opera del poeta.

La prima contrapposizione è quella tra ripetizioni e sperimentalismo.

Pascoli insiste in modo quasi ossessivo su alcuni temi, in particolare su quello che è stato definito il suo “romanzo familiare”, ossia la vicenda dell’uccisione del padre.

Alla ripetizione di temi identici si oppone la varietà delle forme.

Si potrebbe dire che Pascoli tenti di recuperare nella poesia quel legame con i cari divenuto impossibile nella vita, e parallelamente cerhci forme sempre nuove per rielaborare la sua tragedia familiare.

Nell’opera di Pascoli convivono la precisione del dettaglio e la costruzione di atmosfere indefinite: da un lato emerge la volontà di rendere esattamente il dato reale, con grande accuratezza nella scelta dei nomi.

D’altro canto si coglie la tendenza opposta a dissolvere l’immagine nell’indeterminato.

Il particolare preciso che affiora nell’atmosfera indeterminata si carica così di significati simbolici misteriosi.

Lo sguardo delp oeta si fissa spesso sul dettaglio, lo isola e pare esaurire in esso tutto il suo interesse, descrivendolo in forma lirica.

Brani

→ “X Agosto”

→ “Temporale”

→ “Il lampo”

→ “Il tuono”

→ “Novembre”


I canti di castelvecchio

Mentre continua a lavorare a Myricae, Pascoli realizza nel 1903 un’altra raccolta intitolata I canti di castelvecchio, poi ripubblicata più volte con accrescimenti e modifiche.

Il titolo cita esplicitamente un luogo caro, Castelvecchio di Barga, dove Pascoli si era trasferito con la sorella nel tentativo di ricreare quell’intimità familiare e domestica perduta con la morte dei suoi cari.

Nel titolo si può cogliere anche un rimando ai Canti di Leopardi, con i quali vi sono alcuni punti di contatto, a partire dalla predilezione per il vago e l’indefinito, alla percezione della sofferenza che permea il mondo, all’idea del piacere come cessazione del dolore.

La successione delle poesie non segue l’ordine cronologico di composizione ma risponde a un criterio tematico: i testi sono disposti secondo il susseguirsi delle stagioni e mostrano l’alternarsi di vita e morto nel ciclo naturale, mentre nell’esistenza umana la morte incombe come evento irreparabile, frutto di violenza o di un mistero inspiegabile.

I testi sono più lunghi di quelli di Myricae, sono composizioni più ampie e articolate, in cui prevalgono i novennari e i senari, con ritmi spezzati e pause inattese.

Il simbolismo che costituiva una delle novità di Myricae viene ulteriormente accentuato: talora con allusioni scoperte e dichiarate,talora invece con immagini misteriore ed evocative.

In questa raccolta si fa più intensa anche la tendenza al plurilinguismo: abbondano i termini tecnici e quelli garfagnini, al punto che il poeta inserì un lessico per illustrare il significato delle espressioni dialettati e gergali.

Brani

→ “La mia sera” - 349/350


Riassunto


🦋 Gabriele D’Annunzio

Biografia

Nella storia della letteratura italiana Gabriele D’Annunzio è stato uno degli autore più dibattuti e contrastati.

La ragione di tanto fervore polemico è legata alla particolare natura di un’attività letteraria che appare indissociabile dalla vita dell’autore: personalità eccentrica, disinbolta, eclettica, d’Annunzio viene da molti ricordato più per le sue azioni clamorose che per le sue opere.

Al di là delle immagini che lo stesso scrittore ha diffuso con calcolata abilità - da quella del dandy a quella dell’indomito poeta - soldato - si deve riconoscere a d’ANnunzio un’inesauribile e acuta capacità di assimilare le tendenze letterarie e filosofiche della sua epoca e introdurle in un paese ancora provinciale e chiuso alle novità europee.

Questo ruolo di mediatore capace di imporre i nuovi orientamenti del gusto della borghesia italiana, vale a d’Annunzio l’ammirazione della “moltitudine”.

Mentre infatti ottiene largo successo presso i lettori contemporanei, l’autore ha pochi estimatori tra i letterati italiani della sua epoca.


🐣
Gabriele D’Annunzio nasce a Pescara nel 1863 come terzogenito di cinque figli.

Il padre proviene da una famiglia modesta ma è stato adottatoa da uno zio benestante, da cui ha ereditato i beni e il cognome.

La madre, dolce e premurosa a cui il giovane è molto legato.

Al primo figlio maschio viene risercata una formazione d’eccellenza: il padre lo iscrive al collegio “Cicognini”.

Allievo studioso e brillante, il ragazzo eccelle in tutte le materie e consegue la “licenza d’onore”.

D’Annunzio tende ad attribuirsi una sorte di exxezionalità da enfant prodige irrequieto e ribelle.

Nella volontà di ricreare a posteriori un’immagine mitizzata di sè emerge uno dei tratti fondamentali del personaggio: di ingegno versatile, capace di assorbire e affinare competenze precise in diversi ambiti.

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D’Annunzio si imporrà come un protagonista della vita culturale e politica italiana

Negli anni del collegio d’Annunzio legge voracemente i classici (Virgilio, Catullo, Manzoni, Darwin, …) e soprattutto le Odi barbae di Carducci, poeta che risvegli anel giovane un’improvvisa vocazione lirica.

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Nel 1879, a soli sedici anni, pubblica a spese del padre Primo vere, un libretto di versi “carducciani”, che viene sequestrato dai docenti del collegio in quanto troppo licenzioso e sensuale.

Per promuovere se stesso e i propri libri d’Annunzio non esita a mettersi in scena, e lo stesso Marinetti lo accusa di piegarsi al culto di Notre-Dame la Réclame (nostra signora pubblicità).

Per scuotere il pubblico D’Annunzio fa precedere la seconda edizione di Primo vere dal finto annuncio della propri amorte, accompagnata da commoventi necrologi scritti di suo pungo.

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Si iscrive alla facoltà di Lettere dell’Università “La Sapienza”, ma non porterà mai a termine gli studi, preferendo intrecciare rapporti con gli intellettuali più influenti del mondo editoriale romano.

Nel 1882 d’Annunzio pubblica una nuova raccolta poetica, Canto novo, e il volume Terra vergine.

Il grande successo di queste opere lo eleva al rango di divo e lo incoraggia a coltivare il proprio mito anche al di là dei confini letterari: partecipando attivamente alla vita dei salotti e rendendo pubbliche le sue numerose avventure amorose, il giovane scrittore estende la propria fama mondana.

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Il suo matrimonio con la duchessa Maria di Gallese, nel 1883, segue un copione romanzato, con tanto di rapimento della sposa.

Grazie a questa unione d’Annunzio pensa di garantirsi il tenore di vita lussuoso che le sue abitudine dispendiose stanno mettendo in pericolo.

Dopo la nascita del primo figlio, nel 1884 l’autore si trova in difficoltà economiche: ha sperperato il patrimonio del padre e non potendo contare su quello del suocero a lui ostile, si rifugia in Abruzzo.


L’attività giornalistica fli permette di fare fronte ai problemi economici e diventa l’occasione di un apprendistato culturale che sarà determinante: nelle sue recensioni di autori italiani ed europei affina le sue qualità di osservatore dei costumi.

Intanto una nuova relazione amorosa lo lega all’esuberante Barbara Leoni, consolidandone la fama di irresistibile seduttore.

Nel 1888, nonostante le persistenti difficoltà economiche, d’Annunzio decide di licenziarsi e isolarsi per concentrarsi sulla stesura di un romanzo, Il piacere.

Il successo del romanzo presso il pubblico indica che esso ha saputo soddisfare una precisa esigenza sociale.


Tra il 1889 e il 1890 deve prestare servizio militare a Roma e interrompere la produzione letteraria.

Nel 1892 vengono date alle stampe anche le Elegie romane, una sorta di diario sentimentale che si ispira alla passione del poeta per Barbara Leoni.

Nel frattempo d’Annunzio rimane attento ai nuovi fermenti culturali, la sua adesione al Simbolismo europeo appare ora più consapevole e matura.


💭
Intorno al 1892 d’Annunzio si interessa alla filosofia di Nietzsche attraverso la versoine francese di Così parlo Zarathustra.

Nel 1894 pubblica il romanzo Trionfo della morte, che non propone ancora compiutamente la nuova figura mitica del superuomo, ma ne delinea l’avvento.

In definitiva comunque è la morte a prevalere sull’aspirazione alla vita.

Il trionfo della morte, il piacere e l’innocente confluiranno nel cosiddetto ciclo “della rosa”.

Nel 1895 D’Annunzio pubblica Le vergini delle rocce, che segna una svolta ideologica, diventando una sorta di manifesto del superomismo.


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Durante un soggiorno a Venezia incontra la celebre attrice Eleonora Duse, tra i due inizia un’appassionata relazione in cui l’amore si intreccia indissolubilmente con un interesse pratico e artistico.
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Nel luglio 1897 lo scrittore si presenta alle elezioni politiche come candidato alla Camera e viene eletto nelle file della Destra.

Il 1900 segna un radicale cambio di orientamento politico, d’Annunzio passa ai banchi della Sinistra e si candida con il gruppo socialista ma non viene eletto.


Nel 1898 d’Annunzio va a vivere con la Duse in una villa detta “la Capponcina”: si mette in scena con sfarzo e stravaganza, circondandosi di lussuosi arredi, cavalli e levrieri di razza.

Qui lavora alle prime Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi e a un nuovo romanzo, Il fuoco che prolunga la fase del superuomo.

Nel 1904 vengono pubblicati il secondo e il terzo libro delle Laudi, che segnano una sorta di “tregua”, un ripiegamento interno: il poeta si allontana dall’autobiografismo strumentale e idealizzato del “superuomo” puntando su argomenti privati e sulle suggestioni di una lingua più pacata.

Il rapporto con la Duse volge al termine.

Alla Capponcina si installa la nuova amante, ma le spese sostenute per garantirle una vita di lusso portano l’autore all’inevitabile tracollo economico.


Per sfuggire ai creditori, nel 1910, si rifugia in Francia dove rimane per cinque anni.

A partire dall’anno successivo, per far fronte ai problemi economici, l’autore collabora con il “Corriere della Sera” su cui pubblica una serie di scritti autobiografici.

Nello stesso anno d’Annunzio rifiuta la cattedra universitaria di Bologna rimasta vacante dopo la morte di Pascoli.

Tra il 1912 e il 1914 d’Annunzio si dedica a un’intensa attività teatrale ma anche cinematografica.

Allo scoppio della guerra d’Annunzio si reca sul fronte francese come inviato del “Corriere della Sera”.

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Dalle colonne del quotidiano l’autore svolge un’intensa azione di propaganda per l’entrata in campo dell’Italia a fianco dell’Intesa.

Quando il regno d’Italia decide di scendere in guerra d’Annunzio sceglie di arruolarsi.

Divenuto poeta-soldato il vate narra la sua esperienza e le sue imprese nei Canti della guerra latina.

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Il volo su Vienna del 1918, effettuato per lanciare volantini propagandistici di invito alla resa è l’evento più eclatante.

Nel 1916 viene ferito e perde un occhio.

Durante il periodo di convalescenza inizia a redigere alcune note che convergeranno poi nel Notturno.


Un anno dopo la fine del conflitto, d’Annunzio si lancia nell’impresa di Fiume.

Al comando di uomini indignati per la “Vittoria mutilata”, d’Annunzio entra a Fiume senza incontrare resistenze.


Agli inizi del 1922 d’Annunzio cerca di ritagliarsi uno spazio politico autonomo in opposizione al programma del Partito fascista.

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I suoi rapporti con il fascismo sono complicati: l’autore si dimostra ideologicamente prossimo al regime, ma si sente perlopiù usurpato dalle autorità fasciste di cui spesso non condivide le azioni.

Le autorità fasciste, che hanno interesse ad associare alla propria causa il celebre poeta, lo relegano a un ruolo più decorativo che attivo, sacralizzando la sua immagine e mantenendolo in tal modo sotto controllo.


Lo scrittore trascorre i suoi ultimi anni nella sontuosa villa sul Garda. La sua esistenza è ormai più “notturna” che mondana.

Le sue ultime opere sono anch’esse notturne, sia perchè scritte di notte, sia perchè gravate da un senso di stancehzza e di morte.

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Il poeta ormai esausto muore improvvisamente nel marzo del 1938.

La poetica tra “passato augusto” e la modernità

In qunato erede consapevole del patrimonio estetico italiano, d’Annunzio si attribuisce il compito di coniugare tra loro la tradizione nota e la modernità ignota che è destinata ad accrescere il passato illustre di nuova Bellezza.

A differenza di molti letterati suoi contemporanei che si levano contro gli effetti nefasti dell’industrializzazione, d’Annunzio accoglie la modernità e le sue potenziali bellezze.

Il vate lamenta lo scarso interesse per il passato nazionale della classe dirigente borghese.

Il ricongiungimento ideale tra la classicità e la modernità prende forma compiuta in Maia, il primo libro delle Laudi, in cui d’Annunzio trasfigura in chiave mitica un viaggio in Grecia realmente compiuto, facendosi iniziatore di una nuova arte moderna che trovi nell’arte antica il suo punto di origine.


A differenza dei futuristi, i quali esaltano una modernità che nasce sulle ceneri di un passato da distruggere, per d’Annunzio la modernità è dunque debitrice dell’eredità antica e classica, da cui non può prescindere.

D’Annunzio rivendica la sua libertà di non essere soltanto poeta, ma di poter attingere a ogni campo.

Questo interesse avido e a tutto campo conduce d’Annunzio a esplorare precocemente l’universo dell’immagine, dal film alla fotografia: spinto da una sconfinata fiducia nei confronti del progresso tecnico, d’Annunzio giugne perfino ad auspicare l’invenzione di un oggetto che conservi per la posterità la recitazione degli attori di teatro altrimenti irrimediabilmente dispersa.

Uno degli aspetti puù vistosi di questo allargamento degli orizzonti estetici è l’interesse che d’Annunzio rivolge a quelli che in seguito si definiranno i “beni culturali”: contro il degrado artistico e ambientale, egli milita attivamente per la salvaguardi dele bellezze artistiche e naturali italiane.

Lìapprofondita conoscenza dei beni culturali incide anche sull’elaborazione delle opere; d’Annunzio è infatti solito servirsi di guide specializzate per introdurre nei suoi scritti descrizioni dettagliate e notizie storiche delle grandi città d’Italia e dei loro scorci.


La poetica di d’Annunzio segue diverse fasi, che corrispondono alle tappe di una ricerca del ruolo dell’intellettuale nella civiltà borghese moderna.

La prima fase

La prima fase è quella del cosiddetto “estetismo”, inteso come il culto dell’arte e della bellezza a cui vengono subordinati tutti gli altri valori, compresi quelli morali.

A incarnare l’estetismo dannunziano è Andrea Sperelli, protagonista del Piacere.

La seconda fase

Stanco degli artifici dell’estetismo, d’Annunzio si lancia in un periodo di incerte sperimentazioni.

Sorgono in questo periodo alcune opere che risentono del contatto con altri ambienti sociali stabilito dall’autore durante il servizio militare, ma anche della sua appassionata lettura dei narratori russi dell’Ottocento: è la fase solitamente definita della “bontà”, caratterizzata da un’esigenza di rigenerazione e di purezza, ma anche da uno studio delle passioni più buie dell’animo umano.

La terza fase

Tuttavia la fase della “bontà” è una soluzione provvisoria e di breve durata.

Attraverso il mito del “superuomo” ricavata dalla lettura di Nietzsche d’Annunzio investe di un nuovo compito la figura dell’esteta, non si accontenta più di vagheggiare la bellezza rimanendo isolato dalla societa, ma si incarica di agire sulla realtà.

Nel filosofo tedesco d’Annunzio privilegia i principi a lui più affini, come il vitalismo “dionisiaco”, la teoria del “superuomo”, la libertà d’azione dell’individuo superiore.

Il “superuomo” incarna una nuova filosofia che implica il superamento dell’umano ma non la supremazia dell’uomo sull’uomo, in d’Annunzio questa filosofia diventa azione pratica e politica, e si traduce in violenza, rifiuto della democrazia, bellicismo e disprezzo delle masse.

L’artista superuomo si attribuisce la missione di profeta di questo nuovo ordine rivestendo un ruolo più attivo, più politico.

Mentre durante la fase dell’estetismo e quella del superuomo d’Annunzio aveva opposto alla volgarità moderna il culto della bellezza e dell’eroismo del passato, intorno agli inizi del secolo il mito superomistico entra a sua volta in crisi: l’intervento attivo dell’intellettuale-superuomo nella realtà implica un’opposizione violenta contro la modernità.

La pubblicazione delle prime Laudi segna una svolta radicale: il poeta non si contrappone più al mondo moderno, ma ne canta la segreta bellezza, inneggiando agli aspetti tipici della modernità.

La dirompente energia moderna rivela ai suoi occhi il fascino di un nuovo mito.

Con Alcyone, l’ultlima delle Laudi, d’Annunzio abbandona i toni celebrativi e politici dei primi due libri: l’atmosfera che domina il libro è contemplativa e il tema lirico centrale è quello della metamorfosi panica, cioò la fusione dell’io lirico con la natura.

Proteso a conseguire l’immortalità attraverso la perdita della propria identità umana nel ritmo della natura, il poeta si identifica con le diverse presenze animali, vegetali e minerali e, trasfigurandosi, attinge a una condizione divina


In seguito alla lettura di Nietzsche e ai suoi contatti con le avanguardie storiche, d’Annunzio esplora nuove dimensioni estetiche che prevedono un rapporto più diretto tra lo scrittore e il suo pubblico.

D’Annunzio viene considerato da molti come un precursore della comunicazione di massa.

Tra le sue doti di mediatore culturale della società dei consumi vi è quella di inventore di nuovi nomi, motti, slogan e messaggi pubblicitari di grande successo. (Vittoria mutilata, tramezzino, …)

Più che di vere e proprie invenzioni si tratta il più delle volte di calchi tratti dal latino.

D’Annunzio considera l’arte come una “continuazione” e un’elevazione dell’esistenza che, liberata dalla propria imperfezione, assume un valore assoluto e sacrale.

La forma d’arte più adatta a esprimere questa “continuità vitale” è il romanzo.


Il vate rivendica a sè il ruolo di “artefice” della lingua, il quale ha il compito di operare il fecondo ricongiungimento tra il passato augusto e la modernità.

Le parole per d’Annunzio sono sace e vanno preservate nella loro incomparabile unicità: esse sono “simboli senza possibile sinonimia” che rivelano il loro splendore soltanto “all’artefice il quale sappia scrutarne le origini”.

La lingua italiana non deve dunque essere inventata ex novo, ma riscoperta in tutta la sua infinita ricchezza, riportando alla luce i suoi tesori accumulati nei secoli.

La modernità non coincide pertanto con l’invenzione di nuove parole, ma con l’armonizzazione e la combinazione nuova di elementi che sono caduti in disuso e che l’artefice deve riattivare, rimettere in circolazione.

Compito del poeta è anche quello di recuperare il potere arcaico della parole creatrice, riportando alla luce un patrimonio originario di espressioni della sfera prelinguistica che, sepolte nella coscienza universale, accomunano il poeta a tutti gli esseri viventi.


D’Annunzio trae la sua grande perizia linguistica non da un paziente lavoro di filologo, ma dal contatto con alcuni eruditi di fama che gli forniscono interi repertori di parole rare e preziose.

In questo senso la sua è una vera e propria officina che usa, rielabora e contamina tra di loro termini tratti dai lessici speciali.

D’Annunzio lamenta l’assenza di un registro medio nella lingua italiana, la quale ha il difetto di essere o dialettale oppure artificiosa.=


Il piacere

Il piacere è il primo romanzo scritto da d’Annunzio.

Il protagonista Andrea Sperelli è un giovane aristocratico raffinato e coltissimo che discende da una famiglia di artisti.

Andrea si isola sdegnosamente nel culto di una bellezza raffinata e artificiosa adottando uno stile di vita eccezionale e stravagante, distante dal vivere e dalla morale comuni.

E’ diviso tra due figure femminili antitetiche: la fatale Elena muti, la passione erotica, e Maria Ferres, donna pura.

Andrea Sperelli rappresenta almeno in parte l’alter ego di d’Annunzio, il quale nutre nei confronti del suo personaggio un sentimento duplice, fatto al tempo stesso di ammirazione e di coscienza critica.


Sul piano formale, il romanzo è riconducibile a modelli diversi.

Da un lato, l’evidente ambizione di ricostruire un preciso ambiente sociale indica che il superamento del Verismo non è ancora del tutto avvenuto.

Dall’altro lato, il romanzo appare dominato dall’introspezione psicologica dei personaggi e dai loro tortuosi processi interiori.

Per d’Annunzio la narrativa postnaturalista deve mettere in contatto l’analisi psicologica dei personaggi e la descrizione dei luoghi e degli avvenimenti.

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La lingua del romanzo è aulica, preziosa e la sua avvolgente sensualità risente dell’influsso di Baudelaire e delle suggestioni sintetiche dei simbolisti.

Brani

→ “Un destino eccezionale intaccato dallo squilibrio” - 395/397

→ “Un ambiguo culto della purezza” - 399/402


Alcyone

Alcyone appare lontano dai toni celebrativi e politici dei primi due libri delle Laudi ed è percorso da una vena poetica perplessa e malinconica.

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L’atmosfera che vi domina è contemplativa e il tema lirico centrale è quello della metamorfosi panica, cioè della fusione dell’io lirico con la natura, con il flusso della vita universale.

Proteso a conseguire l’immortalità attraverso la perdita della propria identità umana nel ritmo della natura, il poeta si identifica con le diverse presenze animali, vegetali e minerali e, trasfigurandosi, attinge a una condizione divina.

Il tema mitologico e la parabola stagionale appaiono uniti dal motivo comune della “fine”: la tristezza per l’inevitabile declino dell’estate viene associata all’angoscia nata dalla perdita della dimensione mitica dopo la caduta di Icaro.


L’alternarsi delle fonti e dei registri, le forme espressive sperimentali, l’organizzazione metrica, il raffinato tessuto analogico, fonico e melodico fanno del terzo libri delle Laudi un testo capitale del primo NOvecento a cui attingeranno molti poeti successivi.

Brani

→ “Pioggia nel pineto” - 417/424


Riassunto


🎭 Luigi Pirandello

Biografia

La nascita di Luigi Pirandello avviene in un luogo imprevisto e in un tempo inatteso: la madre si è infatti allontanata dalla casa per sfuggire al colera che devasta la Sicilia, e si è rifugiata in un podere di campagna, chiamato Caos; è l’ che Luigi Pirandello viene al mondo nel 1867.

💡
Pirandello afferma che la sua esistenza porta impressi sin dall’inizio i segni del caso: l’imprevedibilità degli eventi e l’assenza di un ordine comprensibile del mondo.

Se nella madre Luigi trova confidenza e affetto, con il padre Stefano ha un rapporto difficile, segnato dall’incopmrensione e dalla reciproca diffidenza.

Padre e figlio sembrano appartenere a mondi opposti: il primo è un abile commerciante di zolfo non disposto all’ascolto nè incline a interessi di tipo intellettuale; Luigi è invece riflessivo, misurato, inadatto ai lavori pesanti e alle attività pratiche.

Da bambino si appassiona alla letteratura, ma in casa non trova libri e fatica a procurarsi altri testi; pertanto ascolta rapito le fiabe e le leggende del folklore siciliano narrate dalla serva di casa, molte delle quali costituiranno le basi per le future novelle.

Il padre gli impone studi tecnico - commerciali, perchè spera di inserirlo un giorno nell’attività di produzione e vendita dello zolfo.

Alla fine del secondo anno però Luigi escogita uno stratagemma per passare al Liceo: finge di essere stato rimandato e, con i soldi che il padre gli dava per le ripetizioni estive prende lezioni di latino in modo da sostenere gli esami del ginnaio.

Quando ormai Luigi frequenta da mesi la nuova scuola il padre scopre l’inganno e lascia che il figlio continui gli studi liceali a Palermo, dove la famiglia si è trasferita per motivi lavorativi.

Dentro di sè va intanto maturando il proposito di diventare poeta.

La distanza con il padre si fa ancora più profonda quando Luigi scopre che Stefano Piranedlo tradisce la moglie con una cugina.

Molti elementi di questa drammatica vicenda familiare saranno raccontati tempo dopo in una novella, Ritorno, che costituisce una sorta di “vendetta” del figlio nei confronti del tradimento paterno.

A diciannove anni Luigi si innamora di una cugina, riesce a conquistarla ma la famiglia di lei acconsente al fidanzamento soltanto a patto che Luigi si associ al padre nel commercio dello zolfo.

Il giovane Pirandello sperimenta un lavoro faticosissimo sotto il sole e ciò lo segna: gli conferma in modo definitivo la sua assolutà estranietà alle attività pratiche del mondo, lo motiva ulteriormente a volgersi alla scrittura.

Il padre spinge Luigi a iscriversi all’Università imponendogli la facoltà di Legge; obbedisce, ma parallelamente si iscrive anche a Lettere.

I sentimenti per la cugina vanno svanendo e perciò si trasferisce a Roma.

All’Università La Sapienza di Roma, nel 1887, Pirandello non rinnova l’iscrizione a Legge ma si dedica soltanto a Lettere.

Successivamente si trasferirà all’Università di Bonn.

Resterà in Germania un’anno e mezzo, lamentandosi con gli amici per la dipendenza economica dal padre.

Ormai libero da promesse matrimoniali, Pirandello si stabilisce a Roma, determinato a fare della scrittura la sua professione.

Non vuole insegnare perché gli pare una scelta riduttiva rispetto all’impegno letterario.

La situazione di precarietà economica finisce però con l’esasperazione di Pirandello che arriva così a combinare un matrimonio di surfaro per interessi economici.

💍
Luigi Pirandello sposa dunque nel 1894 Antonietta Portolano, figlia di un uomo in rapporti di amicizia e affari con il padre.

Nello stesso anno esce la prima raccolta di novelle di Pirandello, Amori senza amore.

Durante il fidanzamento Pirandello aveva sperato di fare di Antonietta una compagna nel suo percorso artistico, ben presto però appare chiaro che Antonietta, donna graziosa e buona padrona di casa, è ingenua e incolta, non in grado di seguire Pirandello nella sua tortuosa ricerca letteraria.

Nel giro di pochi anni nascono tre figli.

Antonietta comincia a manifestare i primi segni di fragilità psichica che vengono però attribuiti alla debilitazione del fisico per i frequenti parti.

Le necessità economiche si moltiplicano: le rendite della dote non sono sufficienti e Pirandello deve dedicarsi all’insegnamento, ottenendo una cattedra all’Istituto superiore di Magistero di Roma.

📉
Stefano Pirandello aveva investito molto denaro, tra cui l’intera dote della nuora, nella gestione di una miniera di zolfo.

Nel 1903 si allaga e il danno è irreparabile, la perdita economica è immensa.

Quando Antonietta apprende la notizia viene colta da una paralisi e smarrisce il controllo di sé.

Anche Pirandello è disperato per la notizia e arriva ad ipotizzare il suicidio.

🔖
Per ottenere compensi, oltre a insegnare, inizia a dare lezioni private di italiano e di tedesco, si occupa di traduzioni, senza smettere di scrivere opere nuove: gli viene infatti richiesto un romanzo da pubblicare a puntate e nel giro di pochi mesi vede la luce Il fu Mattia Pascal.

E’ finalmente un successo.

Le condizioni mentali della moglie peggiorano e la sua malattia si manifesta come gelosia ossessiva verso il marito.

In una lettera del 1914 si sfoga e si giustifica verso l’amico Ugo Ojetti.

Prosegue poi lamentando le difficoltà economiche.

Pirandello è ormai un autore riconosciuto e riesce a scrivere con ritmo ininterrotto, porta a termine moltissime opere, tra cui il saggio L’umorismo, i romanzi Suo marito e I vecchi e i giovani e numerose novelle.

Nel 1915 il primogenito, partito volontario per il fronte, viene ferito e catturato dagli austriaci.

Pirandello, che si era schierato tra gli interventisti nel primo conflitto mondiale, si mobilita per ottenere uno scambio di ostaggi ma il governo di Vienna, vista la notorietà dello scrittore, avanza pretese che il primo ministro italiano reputa inaccettabili.

La figlia, Lietta, è invece costretta a trasferirsi da una parente perchè la madre la accusa di volerla avvelenare e la aggredisce.

Il primogenito torna a casa nel 1919 e nello stesso anno convince il padre a far ricoverare Antonietta in una clinica psichiatrica.

Pirandello sembra voler dimostrare in tutti i modi il suo affetto verso i figli, con il risutlato però di intervenire spesso pesantemente nella loro vita.

Alle difficoltà con i figli si accompagna tuttavia il recupero di un rapporto più tollerante con il proprio padre.

A partire dal 1915 Pirandello si dedica prevalentemente alla stesura di opere teatrali.

🎭
L’editore Treves procede nella pubblicazione in volumi di tutte le novelle apparse su rivista e raccoglie le opere teatrali in una serie di libri dal titolo Maschere nude.

Con una lettera pubblicata sul quotidiano “L’Impero” nel 1924, Pirandello chiede pubblicamente a Mussolini la tessera del partito fascista.

🇮🇹
L’adesione al fascismo da parte di un intellettuale in vista come Pirandello pochi mesi dopo l’uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti a opera degli ssquadristi suscita un’ondata di polemiche.

Secondo i critici l’adesione al fascismo sono da ricercarsi in un genere di delusione: quella di chi, proveniente da una famiglia garibaldina a ntiborbonica, ha assistito al fallimento degli ideali risorgimentali.

Pirandello non rinnegherà mai aperatamente la sua scelta, ma nel tempo il suo atteggiamento diviene sempre più critico nei confronti del regime.

🏆
Nel 1934 viene insignito del premio Nobel ma di fronte all’Accademia di Svezia non pronuncia il tradizionale discorso di ringraziamento; questa omissione è dettata dal fatto che, ormai contrario a Mussolini, non voleva trovarsi costretto a menzionare il governo italiano e il partito fascista

Nel 1925 assume la direzione artistica del Teatro d’Arte di Roma.

Pirandello interviene tenendo vere e proprie lezioni nelle quali impone agli attori di trasformarsi nei personaggi: se i personaggi sono come “statue” create dall’autore, l’attore deve limitarsi a metterle in movimento, senza alterarle con la propria soggettività.

Pirandello apprezza particolarmente una giovane attrice, Marta Abba.

Tra i due nasce un legame profondo e intenso e la donna diventerà per lui compagna, ispiratrice e interprete prediletta.

Il Teatro d’Arte chiude però nel 1928 per mancanza di fondi.

Tra il 1928 e il 1934 compone una serie di testi dedicati al mito.

L’ultimo, I giganti della montagna, sarà portato a termine dal figlio sulla base di indicazioni e appunti ricevuti dal padre.

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Nel dicembre del 1936 si ammala di polmonite e muore a 69 anni nella sua casa romana, mentre terminano le riprese per la versione cinematografica del Fu Mattia Pascal.


Il saggio su L’umorismo e la poetica di Pirandello

✍️
Pirandello scrive nel 1908 un saggio in cui espone le sue considerazioni sull’argomento “Umorismo e Comicità”.

Il testo, intitolato L’umorismo, è dedicato al protagonista del romanzo che nel 1904 aveva finalmente attirato su Pirandello l’interesse della critica e del pubblico.

L’opera è strutturata in due parti:

Nella prima lo scrittore analizza il significato del termine “umorismo” nelle varie lingue europee.

Nella seconda definisce le caratteristiche proprie dell’umorismo, con abbondanza di riferimento filosofici e letterari, ma servendosi anche di esempi concreti per illustrare il suo pensiero.

💭
Per Pirandello nell’arte umoristica la riflessione assume un ruolo determinante e attivo nel processo creativo, perchè analizza e scompone la realtà, la presenta al lettore in un modo nuovo, suscitando in lui una particolare reazione che lo scrittore chiama “sentimento del contrario”.

Secondo Pirandello, comico è ciò che suscita il riso immediato: quando un personaggio o una situazione sono il contrario di ciò che ci aspetteremmo, non possiao che metterci a ridere.

Vecchia signora “imbellettata”

Se tuttavia subentra la riflessione, se qualche elemento del testo suggerisce che quella sproporzione è determinata da una causa serie, amara, e che quel comportamento apparentemente comico risulta drammatico e doloroso per chi lo sta vivendo, al riso si unisce un sentimento di pietà.

L’umorismo scaturisce dunque dall’unione tra percezione e riflessione .

Altri personaggi che per Pirandello esemplificano la concezione umoristica dell’arte sono don Chisciotte, protagonista del romanzo di Miguel de Cervantes, e don Abbondio, nei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni.

Davanti a tali personaggi il lettore prova uno stato d’animo di perplessità, poichè si sente come diviso tra sensazione opposte: vorrebbe ridere, e lo fa, ma il riso “è turbato”.

Pirandello poi introduce i concetti di “vita” e “forma”.

💭
La “vita” è il perpetuo divenire, inafferrabile e irriducibile; la “forma” è invece la struttura esteriore, il proprio ruolo nel mondo.

Gli uomini sono convinti di avere un’identità stabile, riconoscibile dagli altri, univoca.

In realtà la loro è una forma vuota, una maschera che indossano consapevolmente o incosapevolmente, che ciascuno attribuisce a sè e dagli altri riceve.

L’uomo per Pirandello è dunque un insieme di contraddizioni, di elementi contrastanti e incoerenti.

Caratteristica specifica dell’umorismo è proprio la “scomposizione”, ossia la tendenza a mostrare contemporaneamente più aspetti della realta e della natura di un personaggio.

Nell’arte umoristica le cause delle azioni umane non sono mai facilmente individuabili e separabili le une dalle altre: la personalità non è qualcosa di definito, stabile, coerente, ma un magma fluido inafferrabile, che agisce sulla base di istinti e tensioni contrastanti.

Per Pirandello l’umorismo non è soltanto oggetto di riflessione saggistica ma diviene elemento fondamentale della poetica.

In tutte le sue opere si assiste infatti alla commistione inscindibile tra elementi comici e riflessione tragica: dietro ogni fatto drammatico è in agguato l’ombra del ridicolo, così come in situazioni divertenti traspare un lato serio.

💭
La realtà non è mai presentata come un tutto organico ma apparte frammentata, contradittoria, inafferrabile; secondo lo scrittore umorista non è infatti possibile arrivare a una conoscenza oggettiva e univoca del mondo e dell’uomo poichè ogni conoscenza dipende dalla percezione del soggetto. Tale approccio è definito dai critici “relativismo conoscitivo

L’uomo tuttavia cerca un modo per vivere con gli altri: come abbiamo visto, ciascuno indossa inconsapevolmente una “maschera”, si costruisce una “forma” che lo renda riconoscibile a chi gli sta intorno e in tal modo si illude di vivere in modo autentico e di essere libero.

🎭
La sensazione che l’uomo prova quando scopre di indossare una maschera che non coincide con la vita autentica è di vertigine, come di chi si trovi improvvisamente sospeso sul vuoto: tutto ciò che fino a quel momento appariva ordinato, razionale, si rivela improvvisamente fittizzio, casuale, insensato.

La prima reazione è il tentativo di cancellare questa scoperta, fare finta di nulla e riprendere la vita come prima.

Un’altra frequente reazione nei personaggi pirandelliani è quella di fuggire dalla forma stessa: ad esempio Mattia Pascal, ben presto però egli scopre che anche la sua nuova identità non è che un’altra maschera.

Vi sono poi alcuni personaggi che cercano un compromesso: nell’impossibilità di rifiutare del tutto la forma, tentano di ritagliarsi piccoli momenti di libertà attraverso l’immaginazione, per poi riprendere il proprio ruolo ordinario.

Un’altra soluzione parziale è quella di permettersi azioni bizzarre e incoerenti, purchè all’insaputa di tutti: se infatti gli altri vedessero il personaggio agire in quel modo lo riterrebbero pazzo; dunque, se egli non vuole compromettere la sua relazione con il mondo, è obbligato ad agire in segreto.

💭
Il pessimismo di Pirandello nei confronti dell’uomo sconfina talvolta con il nichilismo.

Tuttavia il suo modo di avvicinarsi al mondo non è cinico ma umoristico.

Pirandello non cessa di soffrire con i suoi personaggi e di provare compassione per la loro pena di vivere, nella quale si specchia l’assurdità della condizione umana.

Lo scrittore umorista infatti non si considera superiore ai personaggi e ai lettori, a differenza del poeta decadente.


Il fu Mattia Pascal

Uscito a puntate nel 1904 il fu Mattia Pascal è raccolto in volume nello stesso anno e ripubblicato altre tre volte.

Il romanzo inoltre viene tradotto quasi subito in svariate lingue e viene conosciuto in tutta Europa.

A tale successo di pubblico non corrisponde però un’accoglienza iniziale altrettanto calorosa da parte della critica: molti intellettuali dell’epoca vedono nell’opera soltanto un prodotto di facile intrattenimento e, Benedetto Croce, esprime un giudizio negativo su Pirandello, determinando così una generale diffidenza nei confronti del suo romanzo.

Ma è negli anni Sessanta che avviene una vera e propria rivalutazione da parte della critica, con la collocazione del Fu Mattia Pascal in quella “rivoluzione” europea di primo Novecento che interessa la forma stessa del romanzo.

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In questo libro infatti Pirandello introduce una serie di novità che riguardano la struttura narrativa, la definizione del protagonista, i temi affrontati e sperimenta le idee fondamentali della sua poetica, che saranno poi esposte in forma teorica nel saggio L’umorismo.

La vicenda è narrata in prima persona da Mattia Pascal, nella forma di un lungo flashback, ed è composta di diciotto capitoli, che possono essere suddivisi in quattro parti:

  • prima parte, che potremo definire “cornice”, protagonista è “il fu” Mattia Pascal, che si accinge a narrare la propria vicenda.
  • seconda parte che chiameremo “antefatto”, copre circa tre anni di tempo, dall’inizio vero e proprio dell’azione sino alla decisione di non tornare più a casa.
  • terza parte, che possiamo definire “il tentativo di una nuova vita”, il protagonista è Adriano Meis.
  • quarta parte, che definiamo “ritorno impossibile e ripresa della cornice”, protagonista è “il fu” Mattia Pascal che tenta di rientrare nella sua precedente esistenza senza riuscirci.

Il fu Mattia Pascal è un romanzo che usa molti elementi narrativi classici, ma li ripropone in modo completamente nuovo.

Pirandello però non si limita a riutilizzare questi materiali narrativi, ma ne prende le distanze, accompagnandoli con una continua riflessione.

Alcune tra le novità pirandelliane sono:

  • la vicenda scelta è estremamente insolita, tanto che venne accusata di inverosimiglianza.
  • il protagonista non è un eroe in senso classico ma un antieroe, un inetto che tenta di trasgredire ma non ha mai il coraggio di ribellarsi veramente a ciò che gli appare ingiusto o detestabile.
  • è presente una focalizzazione sull’io narrato: i fatti, sebbene siano già accaduti, sono raccontati dal punto di vista del personaggio che li sta vivendo.
  • il narratore-personaggio riflette costantemente ma è inattendibile: mente a se stesso, adducendo per i propri atti troppe motivazioni, spesso contradittori, eccessivamente dettagliate oppure vaghe e imprecise.
  • le parole non sono scelte per il loro valore evocativo e musicale, per la loro natura rara e preziosa, come nela narrativa dannunziana, ma sono concrete e adeguate al carattere del personaggio.

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L’ambiente, nell’orizzonte di Mattia Pascal, non offre nessuna consolazione alla solitudine dell’uomo.

Il paese natale ligure ma con caratteristiche siciliane non è inifatti un “nido” accogliente e familiare.

Nel romanzo compaiono alcuni temi ricorrenti nella produzione pirandelliana, tra i quali spiccano il problema dell’identità individuale, la famiglia come trappola, il relativismo filosofico.

La vicenda di Mattia Pascal lo porta a scoprire che l’identità non è oggettiva e stabile, ma condizionata da mille elementi e dunque inafferrabile e inconsistente.

Al suo ritorno il protagonista comprende che, una volta spezzata la convenzione sociale, nulla è più come prima.

Il senso di soffocamento e costrizione si incarna nella vicenda di Mattia Pascal come mostrano i litigi con la insopportabile suocera.

Al tempo stesso, però, le istituzioni sociali mantengono per il protagonista un’irresistibile forza di attrazione: Adriano Meis infatti si duole di non poter sposare Adriana, Mattia Pascal alla fine è combattuto tra la volontà di rientrare a casa propria e quella di liberarsi per sempre dal giogo della suocera e dalle vecchie responsabilità.

A differenza di quanto avviene nei romanzi più tradizionali, a chi legge non viene chiesto di identificarsi nel personaggio ma di osservarlo e di riflettere, con un atteggiamento umoristico.

Lo stile della narrazione adotta dunque alcuni espedienti utili a generare un effetto di straniamento per obbligare il lettore a mantenere una distanza critica.

A ciò contribuiscono scelte lessicali inattese, parole che ostacolano la fluidità del racconto perchè sono inconsuete, quasi dei veri e propri neologismi; anche le descrizioni inducono il lettore a osservare con distacco i personaggi quando questi risultano eccessivi e caricaturali.

I procedimenti linguistici che spingono il lettore a riflettere e ad osservare dall’esterno le molteplici sfaccettature della realtà sono gli espedienti di tipo recitativo-teatrale: appelli al lettore, interiezioni, esclamazioni, domande retoriche.

Brani

→ La conclusione, pag. 190-192


Uno, nessuno e centomila

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Il romanzo Uno, nessuno e centomila è frutto di una lunghissima elaborazione: Pirandello lo inizia nel 1909 e lo porterà a compimento soltanto quindi anni dopo, nel 1925.

Nella produzione letteraria di Pirandello questo romanzo riveste un duplice ruolo: da un lato chiude la stagione dei romanzi, portando alle estreme conseguenze il percorso di critica al concetto di identità iniziato con il Fu Mattia Pascal; dall’altro riflette il passaggio a una nuova fase di poetica.

In questa fase assume un ruolo centrale la natura, intesa quale energia istintiva e slancio vitale, come appunto suggerisce la conclusione di questo stesso romanzo.

L’idea principale del romanzo è sintetizzata nel titolo: il protagonista, che si è sempre creduto “uno”, ossia dotato di una personalità fissa e coerente, scopre che gli altri lo vedono in modo diverso da come egli pensa; alla sua rappresentazione di sè non si contrappone però una sola immagine alternativa, ma “centomila” diverse.

Inoltre l’idea che il protagonista ha di sè non può imporsi come la più forte o veritiera: le atlre centomila appaiono tutte parimenti legittime, per quanto limitate e inconsistenti; egli si rende così conto di essere “nessuno” e sceglie coscientemente di rifiutare qualsiasi identità.

La definitiva scomparsa dell’io non è percepita dal protagonista come una morte bensì come una liberazione.


Il romanzo è diviso in 8 libri.

Alla distruzione dell’io corrisponde la dissoluzione della struttura logica del racconto: la trama procede per sbalzi, soste riflessive, ritorni all’indietro, in una sorta di diario eterogeno in cui l’atto di dire e riflettere diventa più importante dei fatti stessi.

Il narratore parla in prima persona, in forma retrospettiva ma senza abbandonare la focalizzazione sul personaggio, come Mattia Pascal.

La forma predominante è quelal del monologo interiore, a cui subentra spesso una sorta di dialogo con il lettore, che viene chiamaato in causa e incalzato attraverso allocuzioni.


In Uno, nessuno e centomila compaiono molti temi propriamente pirandelliani:

  • il relativisimo assoluto: per Pirandello non esiste un’identità nè una verità univoca, in grado di imporsi su tutte le altre.
  • l’incomunicabilità e la solitudine: poichè la percezione di sé e degli altri è sempre soggettiva, si crea il paradosso per cui gli uomini non parlano davvero tra loro, ma ciascuno si rivolge all’immagine che ha dell’altro.
  • la follia: poiché Vitangelo parla e si comporta in modo inatteso, incoerente, inspiegabile, viene considerato pazzo.


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Il romanzo potrebbe dunque essere letto come un esempio di autoanalisi, un modo per liberarsi dalle angosce della vita, proiettando sui personaggi la propria voglia di abbandonarsi all’irresponsabilità della follia.

Brani

→ Il naso e la rinuncia al proprio nome, pag. 205-208


Riassunto


⏳ Marcel Proust

Biografia

Marcel Proust nasce nel 1871 in un elegante sobborgo di Parigi.

I genitori appartengono all’alta borghesia parigina: il padre è un medico e la madre è figlia di un ricco agente di cambio ebreo.

Il bambino, piuttosto schivo e dotato di grande sensibilità interiore, stabilisce un legame privilegiato e quasi morboso con la madre che gli trasmette i suoi gusti letterari e artistici.

Iscritto in uno dei migliori licei della capitale, Marcel stringe alcune importanti amicizie e comincia a frequentare i salotti dell’alta borghesia e dell’aristocrazia parigina.

Dopo il liceo si iscrive alla Facoltà di Diritto ma frequenta al tempo stesso alcuni corsi alla Scuola di Scienze politiche e all’Università della Sorbone, dove segue le lezioni di Henri Bergson, il filosofo che stava rivoluzionando le nozioni di tempo e durata.

Già durante gli anni del liceo Proust collabora alla rivista “Le Banquet”.

Nel 1896 esce in volume la raccolta di racconti I piaceri e i giorni.

Nel frattempo Proust ha già cominciato la stesura di un’opera che costituisce il primo abbozzo della futura Ricerca e che, rimasta incompiuta, verrà pubblicata postuma nel 1952 con il titolo Jean Santeuil.

Intanto, quando la salute glielo concede, compie alcuni viaggi in Europa, tra cui uno a Venezia con la madre.

Dopo la morte di entrambi i genitori rimane profondamente afflitto, si isola sempre più dal mondo dedicandosi alla stesura della sua opera di maggior impegno, Alla ricerca del tempo perduto, che uscirà in sette volumi successivi dal 1913 al 1927.

Ormai non frequenta più gli amici di un tempo e si consacra alla sua immensa opera scrivendo di notte e dormendo di giorno.

Ormai segregato in casa a scrivere, si ammala di bronchite nel 1922 ma rifiuta di curarsi.

Proust muore nel novembre del 1922.

Parallelamente alla scrittura narrativa svolge un’intensa attività di critico, fin da ragazzo si dedica a un particolare tipo di esercizio letterario che consiste nell’imitare, parodiandolo, lo stile degli scrittori più celebri.

Il pensiero critico elaborato da Proust prepara e accompagna la stesura della Ricerca.

Alla ricerca del tempo perduto

Alla ricerca del tempo perduto è un colossale ciclo romanzesco che racconta in sette libri la vita di quattro generazioni lungo un periodo di quarantacinque anni.

All’incrocio tra diversi generi, l’opera, di forte ispirazione autobiografica, è un affresco della società francese all’inizio del secolo ma anche la storia di una vocazione artistica: il narratore, Marcel, esteta improduttivo, scopre soltanto alla fine, dopo una lunga esperienza di tempo “perduto”, che deve diventare uno scrittore e che per riuscirci occorrerà soltanto che trascriva quello che ha già dentro di sè.

Quello che conta nel romanzo, più che l’argomento, è la struttura: la trama non segue i fatti nella loro successione logica e cronologica; il tempo scorre ma è continuamente interrotto e dilatato dal sorgere improvviso di ricordi involontari e di riflessioni che organizzano i frammenti del racconto secondo un ordine più interiore che logico, ordine instabile, fluttuante, benchè non meno rigoroso di quello razionale. Il filo che unisce l’insieme è costituito da alcuni nuclei tematici ricorrenti nell’intera opera, come l’amore, la gelosia, la critica, …,

Il racconto ha la forma di un lungo monologo interiore e si sviluppa attraverso frasi molto estese; i dialoghi sono spesso inglobati nel discorso, e frequenti sono le parentesi e i trattini per introdurre il pensiero del narratore

Le “intermittenze del cuore”

Influenzato dagli studi filosofici di Bergson sul tempo come “durata” interiore, Proust costruisce la sua ricerca del tempo perduto sulla base della cosiddetta “memoria involontaria” che, diversa dalla “memoria volontaria” che è diretta dalla ragione, scatta a partire da alcune sensazioni le quali, in maniera imprevista, fanno affiorare un ricordo del profondo.

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Il tempo perduto può essere ritrovato soltanto attraverso questo tipo di memoria involontaria.

Con uno stimolo esterno genera nel soggetto sensazioni ed emozioni impreviste che resuscitano improvvisamente un momento del passato in tutta la sua verità.

Brani

→ Le intermittenze del cuore, pag. 98 - 101


🪖 Giuseppe Ungaretti

Giuseppe Ungaretti

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Nasce nel 1888 ad Alessandria d’Egitto da genitori emigrati dalla provincia di Lucca.

A due anni perde il padre e viene allevato dalla madre in un’atmosfera familiare segnata dal lutto e dalla nostaliga: i racconti materni dell’Italia lo riempiono di meravigli ae alimentano i suoi sogni.

L’infanzia egiziana lascia un segno incancellabile nella sua immaginazione: la luce accecante del giorno e i rumori sinistri delle notti si imprimono nella sua memoria, mentre i paesaggi continuamente modificati dalla sabbia del deserto gli trasmettono un senso generale di precarietà, come se nulla potesse resistere all’azione corrosiva della natura e del tempo.

Ad Alessandria il giovane compie studi rigorosi in una scuola di lingua francese e si avvicina ai gruppi di rivoluzionari.

Ben presto gli interessi di UNgaretti si orientano verso la letteratura e la poesia, sopratttutto italiana e francese: fin dagli anni di scuola legge la prestigiosa rivista francese “Mercure de France” e inizia a collaborare ad alcuni periodici egiziani con articoli di critica letteraria.

Dopo avere fallito alcuni investimenti commerciali, decide di seguire la propria vocazione letteraria e lascia a ventiquattro anni Alessandria per recarsi a Parigi (1912), che in quegli anni è la patria della cultura eropea d’avanguardia


Durante il viaggio verso la capitale francese Ungaretti decide di fare una tappa in Italia, che si materializza infine in un paesaggio profondamente diverso da quello a cui erea abituati.

La vista delle montagne gli lascia un’impressione indimenticabile: si trova infatti improvvisamente di fronte, nella terra dei suoi avi a uno sconosciuto orizzonte di stabilità e lo vive come una rivelazione improvvisa della profondità della storia e delle proprie radici.

Tuttavia decide di proseguire il viaggio e si stabilisce a Parigi.

Risalgono a questi anni i suoi primi contatti con gli intellettuali parigini legati alle avanguardie artistiche e letterarie: i francesi Bergson, Apollinarie e i futuristi italiani.

Ungaretti perfeziona l’apertura cosmopolita della propria educazione, già favorita dalla nascita in una città affollata di emigrati da ogni paese.

Parigi offre a Ungaretti la strada per giungere a una più profonda consapevolezza di sé e riconoscersi definitivamente come poeta.

Il lungo periodo di apprendistato culturale si concretizza infine nel febbraio del 1915, quando Ungaretti, tornato in Italia, pubblica le sue prime poesie su “Lacerba”.

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Negli stessi mesi egli abbandona le idee anarchiche e sovversive per assumere posizioni nazionaliste e patriottiche e partecipa alla campagna per l’intervento dell’Italia nella Prima guerra mondiale.

Arruolatosi come soldato semplice, è inviato a combattere sull’altopiano friulano nel Carso.

Alla disumanità della vita in trincea Ungaretti reagisce affidandosi alla poesia, vera e propria esperienza conoscitiva capace di rivelare all’uomo il senso misterioso delle cose e di restituirgli lo slancio vitale necessario a sopravvivere.

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Nel dicembre del 1916 esce a Udine la prima raccolta di poesie di Ungaretti, Il porto sepolto

Viene stampato diverse volte con un titolo diverso: Allegria di naufragi, Il porto sepolto, e, infine, L’allegria.

Nelle diverse stampe la raccolta subisce revisioni e rimaneggiamenti.


Nel 1918 il reggimento di Ungaretti si trasferisce sul fronte francese e il poeta decide di rimanere in Francia anche alla fine della guerra.

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Nel 1919 Ungaretti aderisce al Fascismo, nel cui programma nazionalistico e sovversivo si riconoscono nel dopoguerra molti reduci delusi come lui.

Nel 1921 lascia la Francia per stabilirsi a Roma, dove ottiene un impiego all’ufficio stampa del Ministero degli Esteri.

Sono questi gli anni in cui Ungaretti si pone il problema di conciliare la spinta rivoluzionaria e anarchica propria della sua formazione con un’esigenza di ordine e misura.

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Sul piano letterario ciò comporta il recupero della tradizione e dei modelli classici della letteratura: il risultato di questa svolta di poetica è la seconda raccolta, Sentimenti del tempo, pubblicata nel 1933.

Ungaretti sottopone le proprie poesie, anche quelle già pubblicate, a un instancavile lavoro di risistemazione, spostandole talvolta da una raccolta all’altra.

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Una sezione di Sentimenti del tempo, chiamata Inni, rispecchia la ocnversione di Ungaretti al cattolicesimo.

Accanto all’attività di letterato, Ungaretti esercita quella di critico letterario, traduttore e conferenziere.


Nel 1936 Ungaretti acoglie l’invito a occupare la cattedra di Letteratura italiana dell’Università di San Paolo del Brasile e vi si stabilisce con la famiglia, fino al 1942.

Sul piano degli affetti familiari sono però anni di profonda afflizione, per la morte dell’unico fratello e la drammatica perdita del figlio Antonietto.

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Il bisogno di superare questi lutti determina una ripresa della scrittura poetica e ispira a Ungaretti le liriche della terza breve raccolta, Il dolore.

Nel 1942 Ungaretti torna in Italia, accolto dal regime fascista con la nomina onorifica a membro dell’Accademia d’Italia e l’assegnazione della cattedra di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma.

Nello stesso anno pubblica l’edizione definitiva delle due prime raccolte.

Con la caduta del fascismo Ungaretti attraversa un momento difficile: vengono infatti messi sotto accusa i suoi legami con il regime ed egli rischia di perdere la cattedra universitaria che ha ottenuto senza conoscorso.

Tuttavia recupera presto la considerazione dei lettori e dei critici e la sua fama di poeta si diffonde sia in Italia sia all’estero.


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Nel 1969 a compimento di un lavoro di rielaborazione durato una vita, l’opera poetica di Ungaretti viene raccolta in un unico volume, intitolato Vita d’un uomo, Tutte le poesie.

Non si può tuttavia affermare che sia la vita del poeta a ispirare la sua poesia: piuttosto è la poesia a ricostruire e dare significato alla sua vita, rivelando il poeta a se stesso e facendogli scoprire, attraverso improvvise e parziali illuminazioni, il senso della propria esperienza.

Anche negli anni della vecchiaia Ungaretti continua la sua instancabile attività di letterato e conferenziere, ricevendo importanti riconoscimenti.

La sua vitalità gli fa prediligere la compagnia dei giovani discepoli, con cui ama intrattenersi in conversazioni letterarie e in letture pubbliche.

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Di ritorno da un viaggio dagli Stati Uniti per ricevere un premio, il poeta si ammala e muore improvvisamente a Milano, nel giugno del 1970.

La formazione e la poetica

La nascita in Egitto, in un ambiente di emigranti caratterizzato dalla mescolanza di culture e lingue differenti, favorisce l’intenazionalità della formazione intellettuale di Ungaretti, il quale si trova presto a contatto con tendenze culturali molto diverse.

Lo studio in una scuola di lingua francee e la curiosità per tutti i fermenti innovativi del pensiero lo mettono precocemente in contatto con l’ambiente francese delle avanguardie.

Con inesauribile energia egli assiste a lezioni e conferenze, cerca contatti con gli intellettuali, interviene nelle polemiche, partecipa attivamente all’atmosfera di fervore creativo che caratterizza Parigi negli anni Dieci del Novecento.

I poeti Apollinaire e Mallarmé sono considerati da Ungaretti maestri nell’arte di ricercare nuove sonorità poetiche: essi isolando la parola nel verso e nellap agina e privandola di punteggiatura, trasformano il testo poetico in una specie di partitura musicale.

Con i futuristi Ungaretti condivide soprattutto il bisogno di rinnovare la parola letteraria, la denuncia di una tradizione logora e delle sue regole, il frequente ricorso all’analogia per generare nuove suggestioni di senso.

FIn dal 1919 prende le distanze dagli eccessi avanguardistici e dalle “parole in libertà” di Filippo Tommaso Marinetti, riconoscendo la necessità di valorizzare la tradizione letteraria e individuando in Petrarca e Leopardi i suoi maestri illustri.


Negli anni Venti matura anche l’avversione di Ungaretti per la teoria di Freud, attraverso la polemica contro quelle avanguardie, come il Surrealismo, che applicano all’arte i principi della psicoanalisi, attribuendo al sogno e all’inconscio un ruolo centrale nell’ispirazione e nella scrittura.

La “scrittura automatica” di Breton è considerata da Ungaretti espressione di una cieca soggettività, che si limita a riprodurre sulla pagina impulsivamente il disordine dell’inconscio; la parole è invece per il poeta il risultato di un lavoro di scavo e ricerca, e tale sforzo non può prescindere dalla memoria della tradizione.

Benché la parola trovata alla fine di questo percorso abbia il potere quasi magico di accendere una luce sulle profondità segrete dell’uomo e di aprire al poeta uno spiraglio sull’assoluto, essa non può tuttavia esaurire il mistero irriducibile che riguarda la vita.

Proprio la convinzione che sia impossibile fare luce sugli abissi interiori dell’io se non per momentanee folgorazioni separa decisamente Ungaretti dalla psicoanalisi freudiana che tale mistero si propone di svelare.


Se il rapporto con le avanguardie nel periodo parigino è stato per Ungaretti la tappa necessaria per definirsi come poeta, negli anni successivi egli si colloca sempre più in una linea di continuità cn i classici della letteratura italiana, di cui studia il verso e il linguaggio nell’incessante sforzo di tornare, attraverso la “memoria” della tradizione letteraria, all’”incoscienza” originaria della lingua, al suo potere di “rivelazione” del mondo.

Egli individua in Petrarca e Leopardi i due poeti che hanno saputo attribuire alla lingua letteraria la facoltà di trasmettere ai lettori un’emozione estetica e una vera e propria rivelazione di significato.

Bisogna dunque mirare a restituire alla parola la sua nudità, la sua primitività, senza dimenticare la musica della tradizione da cui essa deriva.

Una tale accurata attenzione al fare poetico, alla ricerca della parola e al rinnovamento del metro della tradizione induce Ungaretti in diverse occasioni a polemizzare con le concezioni estetiche del filosofo Benedetto Croce, secondo cui la poesia consiste esclusivamente nella fantastia e nell’intuizione, mentre è minimizzato l’aspetto formale.

Ma la poesia non può essere ridotta a “pura anima”: essa è anche forma, metro, musica di secoli da cui non possiamo prescindere.

La poesia non deve nemmeno spostare l’attenzione esclusivamente sulla forma, come avviene per la poesia pura dei simbolisti.

La poesia deve essere dunque non soltanto esercizio formale, ma “atto di purificazione morale”, via al perfezionamento interiore, cammino verso la verità.

Ecco dunque individuato il compito del poeta, che da una parola scelta tra quelle della tradizione, ma rinnovata nella sua espressività, deve fare scaturire la rivelazione di un significato che sia anche una spinta al perfezionamento morale.


L’allegria

La vicenda compositiva ed editoriale della prima raccolta poetica di Ungaretti è lunga e articolata.

Dalla prima edizione del 1916 il poeta compie un continuo lavoro di revisione che produce molteplici varianti: si aggiungono poesie, se ne tolgono altre.

Nella sua formazione definitiva la raccolta comprende cinque sezioni:

  • Ultime
  • Il porto sepolto
  • Naufragi
  • Girovago
  • Prime

La titolazione volutamente rovesciata allude forse alla mescolanza tra i diversi livelli temporali della composizione.

La vicinanza con le avanguardie e il cosmopolitismo della formazione culturale consentono a Ungaretti di sentirsi libero dai condizionamenti della tradizione liricia italiana e di comporre, almeno all’inizio, una poesia indipendente dalle forme metriche regolari.

Unisce le parole in modo inedito, le isola inlunghi silenzi, dà loro concretezza dìimmagine incorniciandole in spazi bianchi: lo scopo è di restituire alle parole logorate dall’uso la capacità di esprimere nuovi significati.

I versi dell’Allegria presuppongono anzi una versa e propria “religione dell’arte”, una valorizzazione della poesia come ricerca dell’assoluto”, cioè di un significato supremo e misterioso.

La prima raccolta si presenta come una specie di diario di una ben precisa esperienza storica: quella del soldato in trincea durante la Prima guerra mondiale.

Accanto al titolo della maggior parte delle poesie il poeta inserisce infatti indicazioni di tempo e di luogo, come se volesse tenere puntualmente traccia di impressioni ed eventi della guerra.

Lo stesso Ungaretti ha voluto presentare la composizione dell’opera come il frutto di una ispirazione occasionale, dichiarando di avere scritto le poesie direttamente al fronte, su pezzi di carta di recupero.

Le poesie dell’Allegria non sono un diario di guerra: esse si presentano piuttosto come una riflessione sul senso della vita e della morte, sulla natura e sul tempo, sulla salvezza e sulla dannazione, e testimoniano la tensione dell’uomo verso una condizione di armonia con il mondo, di pace e di innocenza.

L’esperienza quotidiana della sofferenza e della morte genera nel poeta un profondo desiderio di vita; questo stretto legame tra la minaccia di soccombere e la volontà di aggrapparsi all’esistenza è all’origine del secondo titolo scelto dal poeta per la raccolta, Allegria di Naufragi.

La parola “allegria” potrebbe apparire poco adatta a poesie che trattano di distruzione e di morte, ma l’ossimoro che la unisce a “naufragi” evidenza proprio la volontà del poeta di reagire alla rovina della guerra con la forza dell’istinto vitale.

La poesia ha dunque il potere di offrire una via di salvezza: essa consente infatti al poeta l’evasione dalla sofferenza e dalla brutalità della guerra grazie alla capacità della parola di esprimere i valori segreti dell’esistenza con nuova e meravigliosa chiarezza.

La poesia assume cos’ un valore universale: l’esperienza del dolore e il bisogno di liberarsene non appartengono soltanto all’individuo, ma sono comuni a tutti gli uomini, e il poeta è colui che attraverso la faticosa ricerca della parola riesce a esprimere la voce di tutti.


I temi dell’Allegria.

I temi del naufragio e dell’allegria, cioè del dolore e dell’istinto vitale, si manifestano in tutta la raccolta attraverso le immagini simboliche del buio e della luce.

La desolazione del poeta travolto dalla guerra, angosciato per la percezione della propria fragilità e impotente a dare un senso alla propria esperienza si traduce spesso nell’immagine del buio che lo chiude e lo minaccia.

Allo stesso modo il buio costituisce lo sfondo delle esperienze più drammatiche del poeta-soldato, come il frastuono minaccioso delle armi durante una battaglia notturna.

La luce indica invece tutto ciò che si oppone al naufragio e all’assurdità della guerra: si tratta a volte della luce smorzata della luna, che riesce a farsi largo tra le tenevre e accompagna le momentanee pause delle battaglie.

Altre volte è la luce piena del mattino o del giorno che sembra cancellare temporaaneamente il dolore e disporre il poeta ad accogliere pienamente la vita con una improvvisa eccitazione o con la percezione dell’armonia dell’io con l’intero universo.

Il bisogno di evasione dalla sofferenza si manifesta spesso come metamorfosi dell’io che si disumanizza, si trasforma in cosa, aspria all’annullamento.

Il poeta si raffigura talvolta come un minerale disanimanto, o anche come un oggetto inerte.

L’io si riduce a oggetto insignificante, sperduto in un infinito universo che lo opprime e gli rivela la sua nullità, oppure lo accoglie nella quiete, o lo inebria di meraviglia.


Nella ricerca di un senso da dare all’esperienza terribile della guerra, il poeta si confronta con Dio.

La constatazione dell’estrema fragilità umana e dell’universalità del dolore genera un desiderio di trascendenza, che si manifesta in domande piene di scetticismo.

La risposta oscilla nell’incertezza: da una parte il poeta sente di non ptersi affidare alla fede come i più semplici tra i suoi compagni, dall’altra si abbandona all’aperta preghiera a Dio, nella lirica che conclude la raccolta, perchè gli conceda una morte senza lunghe sofferenze.

L’esperienza del soldato in trincea non è fatta soltanto dell’affanno delle battaglie, ma anche di lunghe pause e interruzioni, in cui trova spazio il ricordo; è così per la memoria dell’amico arabo, morto suicida a Parigi prima della guerra, op er i fiumi delle città attraversate nell’infanzia e nella giovinezza.

Il sogno è anche il luogo in cui si manifesta il desiderio dei sensi, l’unica forma in cui è presente l’amore nell’Allegria: dolora nostalgia di corpi lontani e di abbracci perduti e sognati.

Parallelamente all’imagine dell’”uomo di pena” che si trascina nel fango della trincea, Ungaretti delinea per sè anche quella del nomade, del “girovago” alla ricerca di un approdo.

Mutano i paesaggi e si alternano nella raccolta le tre terre di Ungaretti: l’Africa, l’Italia, Parigi.

Ma anche quando il poeta, cresciuto in un incrocio di varie culture sembra giungere infine a riconosceri in una patria, l’Italia per cui combatte come soldato, la sua condizione di sradicamento riemerge, impedendogli di sentirsi in pace.

La nostalgia della patria è in realtà un’ansia dell’anima, l’illusoria ricerca di una terra promessa dello spirito dove sentirsi autentico e purificato.


Le novità metriche e stilistiche

Il porto sepolto viene accolto dai lettori come un’opera di forte rottura.

L’innovazione radicale a cui ungaretti sottopone i modelli metrici e formali della tradizione lo identifica ben presto come il poeta della modernità.

L’aspetto caratteristico della poesia di Ungaretti è l’ampio territorio degli spazi bianchi, che appaiono come specie di luoghi fisici, spogli e silenziosi, in cui le parole risaltano con l’intensità di un grido.

In questo bianco si stagliano versi brevi, talvolta brevissimi (Versicoli), che mettono in rilievo alcune parole, a volte marginali, come articoli o preposizioni.

Così la parola diventa la protagonista assoluta del discorso poetico e il suo potere di evocare immagini e significati viene amplificato, coerentemente con una poetica che la identifica com il tramite per giungere a una verità.

Gli spazi bianchi, così come le lettere maiuscole distribuite tra i versi, si sostituiscono alla punteggiatura, che è completamente assente: scandiscono le pause e determinano il ritmo del discorso, che richiede una pronuncia molto rilevata e lenta.

Ungaretti sceglie per le poesie dell’Allegria parole di registro medio, proprie del linguaggio comune e prive di preziosismi e ricercatezze: non è la rarità a intensificarne il significato, ma il loro emergere nude nel silenzio, come oggetti che affiorino da un abisso.

Il loro effetto è potenziato dalle figure retoriche, in particolare dall’analogia, cioè dall’accostamento imprevisto, senza mediazioni logiche, di parole molto lontane per il significato: così il cuore del poeta è accostato a un villagio distrutto dalla guerra.

Frequentissime sono anche le similitudini, che fissano concretamente le parole nell’immaginazione del lettore coinvolgendo tutti i sensi: il pianto del poeta è inaridito come una pietra, l’aria è perforata dai colpi di fucile come un tessuto di pizzo.

Per consentire alla singola parola di emergere e di liberarsi dalle pighe del discorso, la sintassi è semplice ed è costituita da periodi brevi, per lo più formati da un’unica proposizione.

Dominano i verbi alla prima persona dell’indicativo presente, segno dell’importanza dell’esperienza diretta dell’io nella poesia di Ungaretti.

L’aspetto forse più scandaloso è la brevità assoluta di alcune poesie, che con pochissime parole si imprimono nel bianco immenso della pagina.

I due versi di Mattina appaiono ancora oggi una specie di provocazione che infrange le aspettative comuni sulla forma e la lunghezza della poesia, ma sono in realtà la coerente manifestazione di una poetica che attribuisce alla parola nuda e isolata la potenzialità di illuminare interi unviersi di senso.

Brani

→ “Fratelli”

→ “Sono una creatura”

→ “I fiumi”

→ “San Martino del Carso”

→ “Mattina

→ “Soldati”

→ “Veglia”


Sentimento del Tempo

La seconda raccolta di Ungaretti, Sentimento del Tempo, esce nel 1933, ma le poesie che la compongono sono state scritte a partire dal 1919.

L’elaborazione di Sentimento del Tempo va di pari passo con la revisione dell’Allegria e dal 1942 assumo anche il titolo Vita d’un uomo.

Tuttavia le differenze di poetica tra le due raccolte sono manifeste e mostrano che a partire dagli anni Venti Ungaretti assume una nuova maniera di comporre versi, più regolare.

Nelle poesie di Sentimento del Tempo il verso torna infatti a estendersi orizzontalmente e ai versicoli dell’Allegria si sostituiscono endecasillabili e settenari, con un chiaro abbandono degli aspetti più rivoluzionari della prima raccolta.

Tale ritorno alla tradizione rimane però confinato in Sentimento del Tempo, senza estendersi altrove.

Esistono dunque nell’opera di Ungaretti due maniere poetiche differenti, come se il poeta operasse su due tavoli di lavoro paralleli; esse confluiscono poi in un unico disegno compositivo, dalle forme diverse ma coesistenti.


Dopo l’esperienza rivoluzionaria delle avanguardie, si assiste nel dopoguerra in Italia a un generale ritorno all’ordine nelle arti e in letteratura.

Anche Ungaretti condivide in quel tempo la volontà diffusa di “ritrovare ordine”.

Egli però non vuole rinunciare al verso.

Il verso è secondo Ungaretti uno “strumento” che bisogna accordare con i tempi moderni e con la propria voce attuale, restituendogli in tal modo vita e risonanza.

Tra i poeti italiani, egli presceglie Petrarca e Leopardi come modelli di armonia.

Il titolo della raccolta, Sentimento del Tempo, annuncia proprio questo proposito di recuperare la percezione della continuazione della poesia attraverso il tempo, riconoscendo nel passato alcuni altissimi modelli a cui cercare di intonare il proprio canto e il proprio cuore.


In Sentimento del Tempo scompare la guerra, che era stata il tema dominante dell’Allegria, e domina, come un vero e proprio personaggio, la natura, spesso attraverso vere e proprie personificazioni.

Spesso il poeta si rivolge agli elementi naturali come interlocutori di un dialogo diretto e segreto, nell’intento di scorgere al di là dell’apparenza sensibile il mistero che essi custodiscono; ma è ricorrente anche il dialogo con la morte, cui è dedicata un’intera sezione che la rappresenta in modo piuttosto convenzionale come approdo temuto e insieme sospirato.


Con il proposito di accostare ciò che è più distante per ottenere effetti suggestivi e poetici, Ungaretti usa frequenti metonimie, ricorrendo a immagini concrete e materiali per descrivere l’astratto, l’immateriale.

La natura descritta con immagini così corporee appare tutavia percorsa da un respiro divino: vi si aggirano creature evanescenti, ninfe e divinità del mito.

Gli elementi della mitologia classica pagana convivono con aperti riferimenti alla tradizione cristiana.

Accanto alla contemplazione della caduta dell’uomo, debole e tentato dal peccato, troviamo il sogno di una purezza paradisiaca, anteriore al male.

L’uomo riconosce la propria superbia nel credersi immortale e si rivolge a Dio, che si è incarnato e ha sofferto per tutti gli uomini, perchè si mostri infine e lo conforti.


Il ritorno all’ordine nella poesia di Ungaretti si manifesta soprattutto sul piano metrico - stilistico: scompare la frantumazione metrica e vengono adottate misure più estese, torna a essere usata la punteggiatura, le poesie appaiono più lunghe e articolate.

La maggiore estensione del verso e dei testi non contribuisce però alla chiarezza del discorso poetico, anzi l’oscurità risulta accresciuta e diffusa nella raccolta.

Accanto a poesie in cui la lingua conserva una sua evidenza comunicativa e la sintassi si snoda in modo coerente, se ne trovano altre in cui sembra smarrirsi il rapporto tra significante e significato, e risluta molto difficile ricostruire i passaggi lodifici tra un’idea e l’altra.

Il potere evocativo delle parole è affidato agli accostamenti inusuali, alla sintassi tortuosa e soprattutto alle analogie estreme.

Il ricorso all’ellissi sintattica, ovvero alla soppressione dei legami logici tra le idee, è consapevole e mira a essere specchio del mistero profondo di cui la poesia vuole essere espressione.

L’esplorazione dell’ignoto richiede dunque che il poeta usi un codice diverso da quello della comunicazione, una lingua che rinunci a essere veicolo di significato e si proponga invece di accendere improvvise suggestioni.

Tuttavia la raccolta di Ungaretti si distingue dalle opere dei poeti ermetici successivi per una maggiore presenza di contenuti capaci di comunicare un significato; resistono al suo interno poesie che conservano una certa comprensibilità e non pretendono di essere contemplate unicamente come oggetti decorativi.

Ungaretti si può dunque considerare il padre dei poetici ermetici italiani, ma non compiutamente poeta ermetico egli stesso.

Brani

→ “Di luglio” - 441


Riassunto


🕶️ Eugenio Montale

Biografia

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Eugenio montale nasce a Genova nel 1896.

Il paesaggio ligure si incide profondamente nella sua immaginazione e diviene parte integrante della sua identità poetica.

Il mare, la tessa ssolata e arida diventeranno punti di riferimento costanti della sua prima raccolta poetica.

🎓
Dopo le elementari, Montale frequenta le scuole tecniche in un istituto religioso, conseguendo non senza fatica il diploma di ragioniere.

Non è però facile per il giovane trovare una strada che gli garantisca l’indipendenza economica: non continua gli studi all’università, né si trova un lavoro.

Di salute piuttosto cagionevole e di carattere introspettivo, il giovane Montale si sente poco adatto alla vita degli affari; egli stesso si definisce ironicamente “ricco di imprecisabili vocazioni extra-commerciali”.

In un’epoca come gli anni Venti dell’ascesa del fascismo, in cui trionfava un modello di uomo ben diverso, virile, sicuro di sè e dedito all’azione, Montale considera la propria inettiduine alla vita attiva non come un privilegio, bensì come un segno di diversità e di fallimento esistenziale.


Negli ultimi anni della guerra Montale frequenta a Parma un corso per allievi ufficiali, dove conosce Sergio Solmi, letterato torinese con cui stringe un’amicizia.

🪖
Combatte al fronte come volontario in Trentino, e intanto comincia a comporre poesie e a tenere un diario.

Tornato a Genova nel 1920 conosce Camillo Sbarbaro.

Il suo talento musicale avrebbe potuto aprirgli la carriera del cantante lirico, e per qualche anno egli effettivamente studia da baritono, ma nel 1923 Montale abbandona con un certo sollievo questa prospettiva, ritenendo di non avere il “sistema nervoso adatto” per affrontare il pubblico.

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Il 1925 è un anno decisivo anche per l’affermazione di Montale come poeta: nel mese di giugno pubblica la prima raccolta, Ossi di Seppia.

Parallelamente, Montale si dedica a un’assidua attività di critico letterario, manifestando anche in questo campo una posizione personal,e non assimilata a quella della cultura dominante.

Montale manifesta un vivo interesse per una letteratura aperta alle novità culturali europee, come la psicoanalisi e l’innovazione formale del romanzo d’avanguardia, e si sente invece estraneo all’altisonante modello dannunziano, a cui oppone le “semplici forme e talora dimesse” di Svevo.


🇮🇹
Montale assume una posizione intellettualmente vicina ai primi antifascisti, pur non occupandosi mai di politica attiva.

Nel 1927 lascia Genova per Firenze, dove la casa editrice Bemporad gli ha offerto un impiego; vi si adatta però con fatica perchè, obbligato a lavorare otto ore al giorno, lo considera un ostacolo all’attività intellettuale.

Nel 1928 viene nominato direttore del Gabinetto Viesseux.

A Firenze frequenta gli intellettuali di “Solaria”, rivista letteraria fondata nel 1926 e considerata con sospetto dal fascismo.

♥️
Poco dopo l’arrivo a Firenze Montale conosce Drusilla Tanzi, che divene la sua compagna e più tardi moglie.

Sempre a Firenze si avvia l’altra relazione fondamentale della sua vita: nel 1933 incontra Irma Brandeis, con la quale stringe un legame sentimentale e spirituale che dura fino al 1938, anno in cui le leggi razziali la costringono a tornare negli Stati Uniti.


Dopo il licenziamento dal Gabinetto Viesseux, Montale vive faticosamente di traduzioni e collaborazioni a diverse riviste.

Nel 1939 escono Le occasioni.


Durante la Seconda guerra mondiale, trascorsa a Firenze, Montale presta il proprio aiuto ad alcuni amici ebrei costretti alla clandestinità, come Umberto Saba e Carlo Levi.

Alla fine del conflitto vive una brevissima stagione di impegno politico attivo: per pochi mesi si iscrive infatti al Partito d’Azione e fa parte del Comitato per la Cultura e per l’Arte del CLN.

Già dal 1946 Montale aveva iniziato a collaborare da Firenze con il “Corriere della Sera”; nel 1948 è assunto dal quotidiano come redattore e si trasferisce a Milano, dove inizia un’intensissima attività giornalistica.

Il poeta può infine compiere come inviato speciale quei viaggi che avrebbe voluto intraprendere durante la giovinezza, per allargare i ristretti orizzonti della sua città natale.

🏆
Nel 1975 riceve il premio Nobel per la letteratura.

Milano e Firenze lo nominano cittadino onorario.

La perdita della moglie Drusilla Tanzi è l’evento che induce Montale a ricominciare a comporre versi.

📕
Le poesie dedicate a lei, gli Xenia, appaiono nel 1971 come prima sezione di Satura, la sua quarta raccolta poetica.

Con Satura inizia per Montale un nuovo periodo di intensa produzione poetica, che corrisponde a una svolta nella sua concezione della poesia: convinto che nella società di massa non sia più possibile una poesia alta, intellettualmente impegnata, egli compone versi di tipo diaristico, talvolta satirici e provocatoriamente prosastici.

🪦
A Milano Eugenio Montale muore il 12 settembre 1981.

Il funerale è celebrato a Milano nel duomo, alla presenza delle più alte cariche dello Stato.


La formazione e la poetica

Montale non ha una formazione accademica: studia da solo.

I primi decenni del secolo sono dominati dalle Avanguardie letterarie, ma esse hanno sul giovane Montale un’influenza limitata: egli rifiuta gli eccessi futuristi e i ripigamenti sentimentali e malinconici dei crepuscolari.

Alcune affinità si possono cogliere comunque con la poesia di Gozzano, soprattutto il gusto di accostare espressioni auliche a elementi quotidiani.

Tra i contemporanei lascia certamente un segno anche il ligure Sbarbaro, di cui Montale legge le poesie di Pianissimo.

Quanto ai poeti della generazinoe precedente, sono in particolare Pascoli e d’Annunzio a esercitare una palese influenza sulla poesia di Montale, e ciò avviene soprattutto sul piano lessicale e metrico.

Di Pascoli sono visibili i segni nel “gusto per la terminologia esatta e specifica, specie della flora e fauna”.

Della poesia di d’Annunzio egli apprezza soprattutto l’abile tecnica di versificazione, e la considera un modello imprescindibile per i moderni.

Altrettanto necessario però gli pare, per un moderno, “attraversare d’Annunzio per approdare a un territorio suo”, come ha saputo fare Gozzano.

Gli echi della creatività verbale dannunziana sono ben percepibili nelle tre prime raccolte montaliane, così come alcuni aspetti tematici: nei paesaggi marini, degli Ossi di Seppia, è possibile ad esempio riconoscere atmosfere affini a quelle di Alcyone.

Rifiuta le pretese di eccezzionalità della poesia dannunziana e la funzione profetica del poeta-vate, così come l’idea pascoliana della superiore chiaroveggenza del poeta-fanciullo.

Montale stesso ha preso apertamente le distanze dalla volontaria frattura tra poesia e significato attuata dall’Ermetismo e ha sempre manifestato una certa freddezza nei confronti di Ungaretti e della sua poetica dell’assoluto.

Non si può infine ignorare l’influsso di Dante e Leopardi nell’opera di Montale: più visibile il primo.

Dante è presente nell’opera di Montaleinnanzitutto per il lessico, per tutti quei vocaboli che nella Commedia caratterizzano il mondo infernale.

Montale sottolinea come una delle principali qualità del poeta fiorentino fosse la capacità “di rendere sensibile l’astratto”.

L’impronta dantesca è visibile anche sul piano tematico, nella descrizione di una condizione umana di prigionia e dannazione, così come nella presenza di figure femminili sul modello di Beatrice, cui è assegnato il compito di annunciatrici di una possibile salvezza.

Montale ha in comune con Leopardi soprattutto l’atteggiamente disilluso nei confronti della vita, l’idea che l’età adulta smascheri gli inganni di una mitica giovinezza, la resistenza stoica e dignitosa dell’uomo che affronta senza viltà una precaria condizione esistenziale, lo stretto legame sempre conservato tra poesia e filosofia.


Montale è stato sempre un appartato, diffidente rispetto alla storia e all’impegno sociale, quasi un osservato esterno della vita.

La letteratura svolge per Montale un ruolo conoscitivo: è uno strumento per indagare le forme universali della condizione umana, più che le questioni temporanee della storia e della politica.

Costretto a prendere coscienza della dolorosa insensatezza della vita, il poeta le oppone la propria fragile volontà di resistenza, che non si trasforma però in un nitervento diretto nella realtà.

Oggetto della poesia è dunque l’uomo, la sua condizione di esiliato nel mondo, lo spaesamento che nasce dalla caduta di ogni sistema di certezze.

Non soltanto il poeta è incapace di sentirsi personalmente inserito nella vita, ma avverte dolorosamente la sofferenza universale, il “male di vivere” che riguarda tutti.

Egli non può ignorare le assurde catene della vita che imprigionano l’uomo in una condizione di dolore.

Talora è offerto all’angoscia qualche sollievo, per quanto effimero: è l’attimo in cui il pensiero si placa e cessa momentaneamente il suo tormento, oppure l’istante in cui si può sperare nell’apparizione di una donna, una sorta di salvatrice che potrebbe rivelare il senso della vita.

Ma questo evento si compie eccezionalmente e non dura: è uno spiraglio improvviso e provvisorio nella rete opprimente dell’esistenza, da cui si intravede una verità che resta inafferrabile.

E tuttavia il poeta non si rassegna, non rinuncia all’idea che la vita debba, in qualche modo, avere un significato: la sua poesia è un’incessante ricerca di quel significa, che a volte appare debolmente, ma resta irraggiungibile.

Il poeta non ha alcuna dote particolare che gli consenta di trovare una risposta agli interrogativi esistenziali.

Il poeta non è un individuo eccezionale, un poeta-vate con la sua enfase e il sou esibito slancio vitale; è un isolato, che si distingue dagli altri per una vocazione ineliminabile ma priva di utilità pratica: l’attitudine a guardare oltre l’apparenza delle cose.

La dignità morale del poeta consiste nel guardare in faccia la realtà rifiutando le facili consolazioni e riconoscendo il destino umano di infelicità senza illusioni o compiaciuto vittimismo.

Nelle ultime raccolte poetiche l’assenza di significato appare più radicale: la società di massa sembra avere travolto e consumato tutto, compresa la poesia.

Se fino agli anni Cinquanta Montale assegnava alla figura del poeta per lo meno la funzione di interpretare la solitudine esistenziale di ogni uomo, i versi della vecchiaia rivelano invece una maggiore disillusione sul possibile valore della poesia.

Eppure, benchè evidentemente priva di utilità per sè e per gli altri, la poesia appartiene all’uomo, è ineliminabile dal mondo ed esisterà sempre.

Nel momento stesso in cui afferma che la poesia non serve a nessuno, né agli altri né a chi la scrive, Montale le riconosce tuttavia una inevitabile presenza nel mondo.


La poetica del “Correlativo oggettivo”

Una poesia che mira a rappresentare il dolore dell’esistenza deve porsi il problema di come affrontare una materia facilmente soggetta alle incursioni dei sentimenti.

Emblematica a questo proposito è la poesia Spesso il male di vivere ho incontrato, in cui l’espressione del dolore universale viene affidata a elementi del mondo non umano.

A tale intento di oggettivazione, ovvero di rappresentazione dello stato d’animo attraverso elementi concreti, Montale resta fedele in tutta la sua opera, pur nel variare dei modi espressivi delle successive raccolte.

Tale procedimento, che è stato accostato alla poetica del “correlativo oggettivo”, consiste, come afferma Montale, nel “costruire oggetti che sprigionino il sentimento senza dichiararlo”. Si tratta cioè di scrivere poesie in cui lo stato d’animo non sia più rivelato in modo esplicito, come in Spesso il male di vivere ho incontrato, ma resti nascosto dietro oggetti concreti su cui si siano accumulati “sensi e soprasensi”, in modo sempre meno comprensibile per il lettore.

La poetica del correlativo oggettivo, che affida a un oggetto la rappresentazione di un significato astratto, si collega apertamente con l’allegoria di Dante.

Ma se l’allegoria medievale, che si avvale di associazioni conosciuto dai lettori, era comprensibile da chi condivideva quella cultura, l’allegoria moderna appare priva di una chiara relazione tra l’oggetto e la realtà rappresentata, e ciò la rende difficilmente decifrabile dal lettore, che spesso non riesce ad attribuire un senso certo agli oggetti rappresentati.

Questa oscurità irrisolta si traduce nello smarrimento del lettore.

Nella loro apparente insignificanza essi amplificano la percezione della vanità, del non-senso universale.


Montale elabora uno strumento linguistico deliberatamente lontano dal preziosismo dei simbolisti e di d’Annunzio, alla ricerca di un tono sobrio, antieloquente.

Nel suo verso si può riconoscere una forte tendenza all’esattezza terminologica e all’ampliamento del vocabolario, anche di quello normalmente non ammesso in poesia: termini alti della tradizione letteraria si accompagnano a parole dimesse che designano oggetti quotidiani o che appartengono ai linguaggi tecnici e settoriali, e sono numerosi i neologismi.

Montale rifiuta dunque il vocabolario sublime e l’aspirazione alla solennità della tradizione poetica: sono frequenti nei suoi versi le contaminazioni tra un lessico letterario, scelto per la sua rarità, e parti narrative o discorsive.

La profonda innovazione realizzata da Montale sul piano lessicale è attenuata dalla ricorrente presenza di versi tradizionali e rime.

Il poeta, estraneo alla rivoluzione metrica dei futuristi e di Ungaretti, affida alla forma regolare il compito di erigere una sorta di difesa contro il disordine e l’incertezza della vita interiore.


Ossi di Seppia

Ossi di seppia comprende poesie scritte tra il 1920 e il 1924.

Il titolo allude al paesaggio marino, ma è anche metafora di una condizione esistenziale: gli scheletri di seppia che si possono vedere sulle acque o sulle rive del mare sono da un lato emblema del desiderio da parte del poeta di dimenticare la condizione umana e di congiungersi con la natura, dall’altro metafora della degradazione dell’io, che si sente simile a uno scarto, a un relitto scarnificato e inutile.

Si respira nell’opera un’atmosfera particolare e nuova: non la magniloquenza dei versi dannunziani, le invenzioni verbali dei futuristi o gli accenti dimessi dei crepuscolari, bensì un tono dolente, che in modo sobrio dà voce alla disperazione esistenziale.

L’io lirico è sempre in primo piano ed esprime la soggettività del poeta, la sua interiorità, i suoi affetti; è un io concentrato nella tensione a decifrare il senso del reale, paralizzato e sospeso di fronte alla consapevolezza della vanità della vita.

In diverse occasioni Montale ha sottolineato l’importanza del paesaggio ligure presente in Ossi di seppia, e lo ha definito uno spazio “esistenziale”, in quanto riflesso dello stato d’animo dell’io.

Elementi ricorrenti agli Ossi sono: in primo luogo il muro, che è un’immagine significativa e ripetuta, emblema del destino di esclusione cui l’uomo si sente condannato, e poi la sofferenza del vivere e la luce del sole estivo, abbagliante, nell’ora soffocante del meriggio.

Sullo sfondo domina spesso il mare, nei cui confronti il poeta manifesta un sentimento ambivalente: da una parte è vitalità sognata e irraggiungibile, dall’altra è forza che travolge e lascia relitti, come gli ossi di seppia abbandonati sulla spiaggia.

Gli elementi liguri del paesaggio degli Ossi sono spesso descritti da Montale con un’aggettivazione che crea il particolare tono linguistico della raccolta.

Tra le parole poetiche si trovano termini nobili e rari accanto ad altri più umili e usati, sempre però scelti con estrema precisione.

D’altra parte egli recupera le misure metriche tradizionali, soprattutto l’endecasillabo.

L’intenzione di evitare la musicalità più scontata fa sì che le parole e i suoni si urtino tra loro in soluzioni aspre e non cantabili, ma in cui rime, assonanze, allitterazioni suggeriscano l’esistenza di una profonda armonia.

Lo sforzo del poeta è testo a fare aderire il linguaggio all’oggetto della poesia: egli mira cioè a trovare una forma capace di esprimere la tensione conoscitiva dei suoi versi, la sua ininterrotta ricerca di un senso dell’esistenza.

La scelta è allora quella di affidare agli oggetti il compito di rappresentare concetti e stati d’animo.

Il poeta non ha tuttavia alcuna pretesa di superiorità rispetto agli altri uomini, né attribuisce alla poesia una particolare chiaroveggenza: essa non è che uno strumento per mezzo del quale egli conduce coraggiosamente la propria indagine sulla condizione umana.

Dallo stato di imprigionamento dell’uomo pare a volte possibile un’evasione, l’apertura di uno strappo nelle ferree leggi che determinano l’esistenza; il tema della possibilità di sfuggire anche soltanto per un attimo alla disarmonia e di intravedere il senso che sempre ci sfugge compare per la prima volta negli Ossi ma sarà costante nell’opera di Montale, che esprimerà di volta in volta questa intravista via d’uscita con immagini metaforiche di liberazione.

Ma il prodigio annunciato è una speranza delusa, non si realizza mai compiutamente, anzi, se ci si spinge al di là delle apparenze può accadere di scoprire che il segreto del mondo coincida con l’abisso del nulla.

In questa ricerca ssumono un ruolo decisivo anche i numerosi interlocutori dell’io, personaggi con o senza nome, spesso figure femminili lontane o perdute, che rafforzano il poeta nella sua volontà di resistenza morale o fanno balenare una speranza di salvezza.

Brani

→ “Spesso il male di vivere ho incontrato” - 534


Le occasioni

La seconda raccolta di Montale, Le occasioni, comprende poesie di ricerca esistenziale, in cui il poeta tenta di scorgere o di recuperare nel passato gli istanti in cui le cose sembrano promettere la possibilità di uscire dall’insensatezza della vita e di entrare in contatto con un significato.

Questa raccolta è costituita da quattro sezioni, di cui solo la seconda h aun titolo.

Nelle Occasioni cambia il paesaggio: quello ligure è sostituito da quello toscano.

E’ diverso anche il clima: in generale prevale una sensazione di angoscia e di inquietudine, conseguenza inevitabile del progressivo oscurarsi del tempo storico, con il consolidamento del fascismo, l’affermarsi del nazismo, l’emanazione delle leggi razziali.

Tema dominante di tutta la raccolta è l’assenza della donna amata: il poeta cerca nel mondo che lo circonda tracce della sua donna ormai lontana, nel tentativo speso illusorio di ritrovare e trattenere un ricordo cui ancorare la propria esistenza.

Anche in queste poesie gli elementi concreti e sensibili sono al centro della rappresentazione.

Un paesaggio, un oggetto, un animale non sono mai casuali ma alludono a situazioni vissute, benchè spesso imprecisate o sfuggenti.

La rappresentazione delle situazioni interiori attraverso oggetti concreti si realizza nelle Occasioni in modo più oscuro rispetto a quanto accadeva negli Ossi di seppia.

Montale infatti diffonde nei suoi versi oggetti che alludono a stati d’animo e a situazioni esistenziali senza però offrire indicazioni che ne chiariscano il significato.

In questo senso egli si spinge o ltre la poetica di Ossi di seppia, in cui gli elementi materiali rappresentavano esplicitamente la situazione interiore.

Il risultato è una poesia difficile, impegnativa, dai molti possibili significati.

La poesia delle Occasioni è certo di difficil einterpretazione, ma non è il frutto di una oscurità deliberata e programmatica, come quella cercata dai poeti ermetici.

Montale si propone infatti di non smarrire il senso delle parole e la coerenza tra le frasi.

Montale non è interessato a una poesia volutamente indecifrabile, resta per lui un’esigenza irrinunciabile lo sforzo di capire il mondo, l’aspirazione alla chiaroveggenza.


Di questa virtù illuminante e chiarificatrice sono portatrici le donne.

La donna si definisce progressivamente come colei che almeno per un istante può rischiarare il buio del presente, fino ad assumere caratteristiche quasi divine, soprannaturali.

Le Occasioni sono la narrazione di un amore “in assenza”, un dialogo ininterrotto con una donna lontana, partita per sempre o smarrita nell’oscurità della memoria.

Sono molte le donne delle Occasioni.

La vera protagonista delle Occasioni è Irma Brandesi, la studiosa americana con cui Montale ebbe una relazione d’amore.

Il suo nome tuttavia non compare mai, le sarà attribuito lo pseudonimo di Clizia.

Creatura salvifica venuta dal cielo a offrire soccorso al poeta smarrito per la sua assenza.

Le sue improvvise appirizioni ce la mostrano astratta e concentrata come un visiting angel, capace di salvare dal male, benchè ella stessa colpita dal male e dalla sofferenza.


Nelle Occasioni convivono registri linguistici differenti: parole appartenenti al linguaggio quotidiano, proprie del parlato, si trovano mescolate con termini più rari, di derivazione letteraria.

Sul piano della metrica nelle Occasioni c’è un recupero dei versi tradizionali, prevalentemente l’endecasillabo.

Brani

→ “Ti libero la fronte dai ghiaccioli” - 552


Satura

Montale trascorre dieci anni in un quasi totale silenzio poetico.

Tuttavia, componendo alcuni epigrammi in coda ai suoi articoli, afferma di avere iniziato a riconoscere in sé un’inclinazione verso una poesia più vicina alla lingua quotidiana e ai ritmi della prosa.

L’abbassamento discorsivo del linguaggio deriva da una fondamentale novità tematica: il poetea è immerso nella società massificata e meccanizzata degli anni Sessanta del Novecento.

E’ per lui un mondo dominato dall’apparenza, in cui non sembrano più trovare spazio i valori intellettuali e umanistici che erano stati l’essenza della sua formazione.

Il titolo offre una chiave di lettura della raccolta: la parola latina satura indica infatti un piatto di varie primizie offerto agli dèi, e già nella letteratura latina si riferiva a testi di temi e linguaggi molto diversi, spesso ironici.

L’intenzione di Montale è di sotolineare la varietà tematica e la prevalenza del registro ironico nella raccolta.

La raccolta è divisa in quattro sezioni: Xenia I, Xenia II, Satura I, Satura II.

Le poesie delle prime due sezioni si presentano perciò come offerte del poeta alla memoria della moglie morta, in un tono insieme addolorato e ironico.

Convinto della propria radicale estranietà a un mondo in cui i valori della letteratura vengono emarginati e prevalgono ideologie e fedi che non gli è possibile condividere, Montale accetta il proprio isolamento senza dissimulare né attenuare la propria amare consapevolezza della condizione umana.

E’ evidente il gusto del poeta per le affermazioni illogiche e per i giochi di parole; si tratta di frasi che si sottraggono a un senso razionale e comunicano nella loro contraddittorietà un’immagine assurda del reale.

Il confine tra vita e morte è sempre più incerto, la vita appare misteriosa tanto quanto la morte, e il paradosso è che l’esistenza è tanto insignificante che si può credere di essere morti senza saperlo.

Domina incontrastata la figura della moglie Mosca, rievocata dopo la morte attraverso i minimi atti della sua esistenza quotidiana.

La donna perde il proprio ruolo di annunciatrice di senso semplicemente perchè non sembra più possibile trovare un senso nel mondo e nella storia: tutto sfugge.

Tuttavia, seppure in modo diverso, Mosca assolve alla stessa funzione rivestita dalle altre donne che hanno accompagnato il poeta e ispirato la tua poesia: gli dà soccoro nella sua inettitudine ad affrontare la vita.

Eppure questa donna che Montale doveva sentire così radicalmente diversa da sé non era una donna ordinaria: capace di affrontare la sofferenza fisica, ella era ricca di istintiva vitalità, e amava tutto ciò che interrompeva il corso monotono dell’esistenza.

Da quando Mosca non c’è più il poeta la cerca negli oggetti quotidiani, nel ricordo delle lunghe telefonate, ed è infine costretto a confessarle il proprio peregrinare sulle sue tracce.

Tutti gli Xenia sono l’affettuosa rievocazione del rapporto con la moglie.

Tuttavia il tono delle poesie non risulta mai lamentoso.

E’ questa una costante dello stile di Montale, che reagisce alla commozione con deliberati abbassamenti di tono, scegliendo registri ironici, leggeri, disinvolti e rinunciando ai modi stilistici patetici e tragici con cui viene tradizionalmente trattato il tema della morte.


Il tono prosastico e narrativo dei testi li distingue da quelli delle raccolte precedenti.

Il lettore percepisce che è mutata l’idea stessa della poesia: essa cessa di essere un mezzo di rivelazione, sia pur intermittente, di verità, e diventa uno “strumento quotidiano e quasi immediato, valido accanto a altri, di osservazione e riflessione”:

La scrittura assume un carattere diaristico e occasionale.

Accanto alle parole tratte dall’uso colloquiale se ne incontrano di più ricercate e letterarie.

L’effetto generale di questa mescolanza non è lo scarto dal quotidiano, ma la sua riaffermazione, ottenuta attraverso l’abbassamento ironico della lingua letteraria.

Si moltiplicano inoltre le parole straniere, soprattutto anglosassoni, e i giochi di parole, come se il poeta volesse sperimentare ogni modo di esprimere il reale di fronte alla sua essenza incomprensibile e dunque ineffabile.

Brani

→ “Avevamo studiato per l’aldilà” - 570

→ “Ho sceso dandoti il braccio” - 572


Riassunto


🤐 Salvatore Quasimodo

Biografia

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Quasimodo nasce a Modica, vicino a Ragusa, nel 1901.

Il padre è trasferito a Messina subito dopo il disastroso terremoto del 1908.

Lo spettacolo del dolore e della devastazione naturale si imprime in modo indelebile nella mente del bambino.

Quasimodo non compie studi classici ma viene avviato all’istruzione tecnica; si iscrive poi alla facoltà di Ingegneria a Roma, tuttavia deve interrompere gli studi per ragioni economiche e si adatta a svolgere molti mestieri.

Nel frattempo matura in lui una intensa passione per la poesia.

Inizia a scrivere testi poetici e parallelamente studia con caparbietà e rigore il latino e il greco, sotto la guida di un insegnante privato.

Per seguire la sua vocazione letteraria si trasferisce a Firenze nel 1929 e viene introdotto nell’ambiente intellettuale della città. L’anno dopo esce la sua prima raccolta Acque e terre.


Nel 1938 decide finalmente di abbandonare il lavoro di geometra cibile e inizia a lavorare nell’editoria.

Nel 1940 pubblica la sua tradizione dei Lirici greci, che suscita polemiche nel mondo accademico ma generale apprezzamento per la resa poetica, e l’anno successivo è nominato insegnante di Letteratura italiana al conservatorio di Milano.

Nel 1943 è denunciato da una spia come antifascista, ma non viene arrestato; non prende parte attivamente alla Resistenza ma dopo la guerra si iscrive al Partito comunista, benchè la sua militanza politica duri pochi anni.

🏆
Nel 1959 gli viene assegnato il premio Nobel per la Letteratura.

L’attribuzione del premio suscita vivaci contestazioni nell’ambiente intellettuale italiano.

🪦
Muore improvvisamente nel 1968 per un’emoraggia celebrale.

L’evoluzione poetica

Quasimodo porta all’esasperazione il modello di espressione poetica derivato dalle poesie di Giuseppe Ungaretti, poi confluite in Sentimento del tempo: adotta infatti un linguaggio oscuro, quasi indecifrabile, che tende alla brevità estrema e al frammento.

Elemento cardine di questa poesia non è il verso, ma la singola parola, che cessa di essere un mezzo di comunicazione verso l’esterno per trasformarsi in strumento di indagine proprio dell’io lirico.

Le poesie scritte da Quasimodo in questi anni contribuiscono a stabilire alcune delle costanti poi considerate dalla critica come proprie dello stile ermetico: la brevità, la presenza di sostantivi privi di articoli, la prevalenza di termini astratti, l’anomalia delle costruzioni sintattiche, la densità di analogie e metafore, la ricerca di una intensa musicalità.

A differenza di altri poeti ermetici, Quasimodo introduce nella sua poesia temi autobiografici, primo tra tutti quello della Sicilia arcaica e leggendaria, con profonde radici greche, evocata attraverso elementi simbolici del paesaggio.

Si aggiungono il tema dell’infanzia, la condizione di esilio della terra natale, la presenza dei morti, la fragilità della carne.

Le raccolte pubblicate a partire dagli anni Quaranta mostrano la svolta profonda che si determina in Quasimodo dopo l’esperienza della Seconda guerra mondiale e il contatto con il dolore inflitto dagli uomini ad altri uomini.

Temi centrali della riflessione di Quasimodo divengono ora la guerra, la violenza che stravolge la natura umana, la condizione dell’uomo in quanto membro di una collettività civile.

Il linguaggio si adegua alla nuova esigenza comunicativa e diviene più concreto e aperto, sebbene mantenga alcuni elementi retorici della precedente stagione come la diffusa presenza di sinestesie, metafore, antitesi.

Nella metrica viene abbandonata la tendenza al frammento e prevalgono gli endecasillabili, i settenari e i quinari.

Brani

→ “Ed è subito sera” - 373

→ “Alle fronde dei salici” - scheda

→ “Uomo del mio tempo” - 379


Riassunto


🧪 Primo Levi

Biografia

Da ragazzo Primo Levi mostra un carattere schivo e giudizioso: vive a Torino frequentando pochi amici, studia, legge, cammina in montagna.

Questa vita iniziata per scorrere come tante altre viene travolta all’improvviso dal Lager: a ventiquattro anni Levi viene deportato ad Auschwitz, dove rimane per undici mesi. Al suo ritorno nulla è più come prima.

Il ragazzo appartato e tranquillo non essite più, e Levi inizia una lunga battaglia contro la disumanità di cui è stato testimone.

É una lotta fatta di libri, di lezioni e di dibattiti che lo trasforma in un intellettuale dalla parola limpida e autorevole, sempre più ascoltato, riconosciuto, stimato.

Due sono dunque le vite di Levi: la prima, ordinata e tranquilla, chiusa nel piccolo ambiente dei giovani studenti torinesi; la seconda, dopo la frattura del Lager, sempre più pubblica e condivisa.


🐣
Primo Levi nasce a Torino il 31 Luglio 1919 da un’antica famiglia ebraica piemontese.

Il padre, Cesare, è un ingegnere elttrotecnica, la madre, Ester Luzzati, è una giovane di ventiquattro anni.

Dopo avere frequentato il licelo classico di Torino si iscrive alla facoltà di Chimica, attratto da una disciplina che gli pare offrire un codice per capire l’universo.

Già al liceo le discipline scientifiche sembrano a Levi più ricche di risposte di quelle umanistiche: talmente scarso è il suo interesse per la letteratura che all’esmae di maturità viene rimandato nel tema di italiano.

All’Università si appassiona immediatamente alle lezioni dei suoi professori, ma l’anno successivo alla sua iscrizione vengono emanate le leggi raziali (1938).

🎓
Nel 1941 si laurea a pieni voti, con lode: in seguito esprimerà la convinzione che l’eccellenza di quel risultato fosse un modo, da parte dei professori, di manifestare indirettamente il proprio dissenso verso le leggi antisemite.

Subito dopo la laurea Levi deve cercarsi un lavoro: il padre infatti muore lo stesso anno di tumore e il giovane si preoccupare di provvedere economicamente alla famiglia.

🪖
Levi intanto si avvicina al Partito d’azione clandestino e dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 compie una scelta politica: insiieme con alcuni dei suoi amici decide di aderire alle formazioni partigiane antifasciste che si stavano costituendo sulle montagne.

Il 13 dicembre viene arrestato dai fascisti; dopo due mesi rrascorsi nel campo di concentramento di Fossoli, il 22 febbraio 1944 Levi è deportato ad Auschwitz.


Levi trascorre nel Lager unidici mesi, da febbraio 1944 a gennaio 1945, quanto le truppe russe liberano il campo di Auschwitz; il viaggio di ritorno seguirà un lungo e tortuoso tragitto attraverso l’Europa centrale e durerà da giugno a ottobre del 1945.

L’arrivo a casa, a Torino, non porta con sè la gioia sperata.

Tormentato dal dolore per l’esperienza del Lager e dal senso di colpa per essere sopravvissuto a tanti compagni che gli parevano migliori di lui, Levi sta male.

La fine della guerra è vissuta con sollievo dagli italiani: i partigiani raccontano le loro imprese e vengono trattati da eroi, mentre i reduci dai Lager sentono tutto il peso della prigionia e dell’umiliazione subita; nessuno vuole ascoltare i loro racconti.

Ora tutti voglio guardare avanti, dimenticare.

Per Levi la memoria è un imperativo in primo luogo personale, per liberarsi da un peso insostenibile, poi morale e civile, per garantire il ricordo dovuto ai morti e proteggere i vivi dal ripetersi del male.

Già nel Lager egli era riuscito ad annotare poche righe con altissimo rischio; nel gennaio 1946 trova un impiego in una fabbrica di vernici vicino a Torino in cui per un po’ di tempo non gli viene assegnato un compito preciso, e scrive in pochi mesi Se questo è un uomo.

Il libro è pronto nel 1947, ma l’editore Einaudi, a cui Levi lo propone, non vuole pubblicarlo: i tempi non sembrano adatti a vendere libri tanto dolorosi.

Lo pubblica invece una piccola casa editrice torinese, ne venderà solamente poco più della metà.

💍
Nello stesso mese di gennaio 1946 Levi conosce per caso Lucia Morpurgo, di cui si innamora e che lo aiuta a ritrovare la voglia di vivere.

Nel settembre 1947 Levi sposa Lucia, da cui avrà due figli.


🔖
Dopo la nuova pubblicazione di Se questo è un uomo da parte della casa editrice Einaudi nel 1958, esce La tregua, il libro di memoria che racconta il lungo ritorno ad Auschwitz.

L’opera ottiene il premio letterario Campiello, ma i critici faticano ancora ad accettare l’idea che Levi sia uno scrittore e tendono a ridurne il ruolo a quello di testimone.

In quegli stessi anni Sessanta Levi orienta la sua scrittura verso l’invenzione: con lo pseudonimo di Damiano Malabaila pubblica una raccolta di quindi racconti intitolata Storie naturali.

Si tratta di testi in gran parte di tema fantascientifico, spesso brevi e con una forte impronta morale.

Una seconda raccolta di racconti, intitolata Vizio di forma, esce nel 1971, questa volta con il nome di Levi, ma ottiene dai lettori un tiepido interesse.


🔖
Con la pubblicazione del Sistema periodico (1975), la raccolta di racconti “sulla chimica e sui chimici” concepita per parlare del suo mestiere, Levi diventa scrittore a tempo pieno.

Nello stesso anno infatti dà le sue dimissioni dalla fabbrica di vernici.

Anche in questo libro la memoria è presente, sia quella autobiografica del giovane studioso sia quella del Lager, che ritorna di tanto in tanto come tetro orizzonte delle vicende narrate.

🔖
Tre anni dopo, nel 1978, Levi pubblica il suo primo romanzo di piena invenzione, La chiave a stella.

Storia di un montatore di gru che gira il mondo per svolgere il suo mestiere, sostenuto dalla convinzione che la vera felicità a cui l’uomo può asprirare è quella del “lavoro ben fatto”.

💭
In tutte le opere di Levi, sia di testimonianza sia d’invenzione, si può cogliere un tratto costante della sua personalità di scrittore: la curiostià per la natura umana, l’interesse per le sfumature dei caratteri e dei modi di vivere insieme, il grande valore attribuito alla dignità dell’uomo.

É come se anche nelle opere di fantasia Levi non potesse fare a meno di parlare della propria esperienza, del proprio bisogno di comprendere l’uomo e i fatti della storia.


Intanto Levi è divenuto sempre più un personaggio pubblico: a partire dagli anni Sessanta le sue opere sono tradotte in moolti paesi stranieri.

Nelle scuole si diffonde la lettura dei suoi libri, proprio con i ragazzi delle scuole Levi si è assunto l’impegno della trasmissione della memoria.

Intanto, a partire dalla fine degli anni Settanta, si diffonde in Europa il fenomeno del revisionismo storico, ovvero l’esplicita negazione della verità storica dello sterminio nazista da parte di intellettuali di diversi paesi, compresi quelli tedeschi.

La memoria del Lager, mai veramente accantonata nella scrittura di Levi, compresa quella d’invenzione, torna a essere il tema centrale della sua ultima opera.

Lo scrittore sente il bisogno di una riflessione più ampia e documentata sul Lager che tocchi i principali problemi filosofici, morali, storici sollevati da quella esperienza.

Il frutto di questa analisi critica è il saggio I sommersi e i salvati uscito nel 1986, è l’opera più impegnata e alta di Levi, un vero e proprio testamento intellettuale.

Si aggrava intanto la crisi depressiva di cui Levi soffre periodicamente.

Il ricovero per un intervento chirurgico e la necessità di accudire nella propria casa l’anziana madre e la suocera gravemetne ammalate accrescono la prostrazione dello scrittore.

☠️
L’11 aprile 1987 Levi muore a 67 anni nella sua casa di Torino, lasciandosi cadere nella tromba delle scale.

La chiave a stella

La chiave a stella è un’ “antologia di avventure di lavoro”, cioè la narrazione in quattordici episodi delle vicissitudini di un operario che gira il mondo per svolgere il mestiere di montatore di gru e tralicci industriali.

La vicenda ha la forma di dialogo tra un narratore, chimico e scrittore, ovvero Levi, e l’operaio Libertino Faussone, che nella lingua semplice e diretta di un uomo illetterato gli racconta la sua esperienza.

Il protagonista del libro riferisce dunque la sua vicenda da testimone diretto, proprio come ha fatto Levi in Se questo è un uomo e La tregua, ma in questo caso le vicende e il personaggio sono frutto di fantasia.

L’idea del libro nasce da una lettura e da un viaggio.

Le quattordici storie raccontate nel libro derivano anche dai racconti degli amici e da letture di articoli su riviste specializzate o manuali tecnici.

A partire da questo vario materiale lo scrittore inventa le avventure di Faussone, sentendosi per la prima volta libero, come dichiara in un’intervista del 1979, dal dovere di verità che si era imposto per i libri sul Lager.

Il tema centrale dei racconti di La chiave a stella è quello del lavoro, inteso come un’opportunità di realizzazione di sé per chi ha la possibilità di svolgerlo con competenza e passione.

Levi evidenzia il valore liberatorio e gratificante del lavoro compiuto a regola d’arte.

Il perfezionismo tecnico, l’orgoglio professionale, la responsabilità per l’esito della propria opera costituiscono la base dell’appagamento che si può trarre da ogni mestiere.

Nel libro viene infatti valorizzato il laboro come atto “creativo”, cioè svolto grazie a una specifica abilità tecnica, e respinta invece l’opinione secondo cui il lavoro è “un’espressione puramente servile dell’uomo”.

Attraverso un mestiere liberamente scelto l’uomo infatti costruisce se stesso, e dagli errori compiuti apprende il modo per non ripeterli, perfezionando la propria capacità di affrontare i problemi e ricavando piacere dal miglioramento di sé.

La principale novità è la lingua: Levi ha voluto infatti riprodurre nel libro la cadenza del dialetto piemontese popolare parlato dal protagonista.

Sono frequenti anche le irregolarità grammaticali proprie della lingua parlata da una persona poco colta.

Per sottolineare il carattere illitterato della lingua di Faussone, Levi si avvale anche della grafia “all’italiana” delle parole straniere.

Lo scarto della lingua rispetto a quella curata ed elegante fino ad allora usata da Levi nei suoi libri è frutto di una sua scelta consapevole, nata dalla volontà di aderire con la scrittura alla vita vera.

Brani

→ Pensare con le mani, pag. 755-758


Riassunto


⛰️ Italo Calvino

Biografia

Italo Calvino si è sempre presentato come un uomo riluttante a parlarse di sé, dati biografici non ne dava mai o li dava falsi.

Erano inoltre ben note la sua timidezza nel parlare e la sua indole restia a condurre una conversazione.

Eppure ha rilasciato nella sua vita più di duecento interviste.

Come si spiega questa contraddizione? Consapevole della funzione che l’intellettuale riveste nella società del secondo Novecento, Calvino non si sottrae alle domande e al confronto, e accetta il suo ruolo pubblico, tuttavia è molto attento alla propria immagne.

Porge con discrezione una chiave di lettura di sé, quella dell’uomo coerente ma no nstatico, mai appagato né immobile.

🐣
Italo Calvino nasce nel 1923 in una famiglia di scienziati

Il padre è un agronomo di fama internazionale, la madre è laureata in scienze naturali.

Tuttavia quello sguardo scientifico sulla realtà a cui Calvino sembra dichiararsi estraneo non manca di alsciare tracce nella sua produzione letteraria, manifestandosi come desiderio di esattezza.

Proprio a causa dell’attività lavorativa del padre Calvino nasce lontano dall’Italia, a Santiago de Las Vegas, a Cuba.

Il paesaggio che però continuerà a ripresentarsi nei suoi libri come ambiente naturale persistente è quello di Sanremo, in Liguria, dove la sua famiglia si trasferisce a metà degli anni Venti.

A quell’epoca Sanremo rappresenta una cittadina cosmopolita, luogo d’incontro popolato di figure interessanti ed eccentriche provenienti da tutta Europa.

Qui Calvino trascorre l’infanzia e l’adolecenza, in un ambiente benestante e laico, senza una vera consapevolezza dei contrasti politici che agitano l’Italia fascista.

I suoi genitori sono ostili a Mussolini, ma più per un rifiuto dell’arroganza e della volgarità fasciste che per una vera scelta politica; per molto tempo il giovane Calvino non sente la necessità di assumere posizioni nette.

Negli anni liceali scrive i primi racconti, ma la sua passione per la letteratura resta un segreto inconfessabile in famiglia.

Per tradizione familiare si iscrive dunque alla facoltà di Agraria a Torino e sostiene i primi esami.

💭
Nel 1943 la sua posizione politica diviene più definita: festeggia con gli amici la caduta di Mussolini.

Poi, l’8 Settembre 1943, si sottrae alla chiamata alle armi della Repubblica di Salò e nel 1944 si unisce ad una brigata comunista.

L’esperienza della guerra partigiana segna per lui il passaggio da una fase della vita ad un’altra: dal mondo protetto del ragazzo borghese si vede improvvisamente proiettato in una condizione adulta.

Nelle brigate dei partigiani percepisce contraddizioni ed elementi incomprensibili, ma anche un desiderio di riscatto.

Nel dopoguerra pertanto aderisce al Partito comunista e inizia un periodo di attiva militanza politica.


Nel 1945 si trasferisce a Torino, abbandona gli studi di agraria e si iscrive a Lettere; diviene amico di Cesare Pavese.

💼
Il 1946 è l’anno in cui Calvino inizia a collaborare con la casa Editrice Einaudi, e il suo primo incarico è quello di vendere libri a rate.

Non è un periodo semplice dal punto di vista economico; vive in una “gelida soffitta torinese” vicina alla stazione.

Spesso per guadagnare qualcosa rivende l’olio ligure portato da casa.

Riesce però a pubblicare alcuni racconti sui quotidiani e in pochi mesi scrive il suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno, dedicato all’esperienza della lotta partigiana, che l’editore Einaudi accetta di pubblicare nel 1947.

Progressivamente la posizione di Calvino presso Einaudi diviene più significativa: passa a occuparsi dell’ufficio stampa, poi dal 1950 è assunto stabilmente come redattore.

Tra i suoi compiti vi è anche quello di esaminare manoscritti e di rispondere a coloro che non saranno mai scelti per la pubblicazione.

Nella casa editrice Calvino ha soprattutto la possibliità di inserirsi nel gruppo intellettuale che più di ogni altro delinea il panorama culturale italiano del dopoguerra.


Fondamentale nella giovinezza di Calvino è l’esperienza politica.

Con l’adesione al Partito comuinsta inizia per lui un periodo di attiva militanza.

Collabora con l’organo principale del partito, partecipa a incontri e dibattiti, si accosta al movimento operaio.

Tuttavia in lui viene maturando un dissidio tra il desiderio di essere al servizio della verità e della giustizia sociale e l’obbligo di giustificare i metodi autoritari sovietici per ordine del partito.

Quando nel 1956 il segretario Chruscev denuncia i crimini di Stalin e apre un percorso di rinnovamento, Calvino si impegna nel dibattito interno al PCI affinchè il partito elabori una linea italiana per il comunismo, pienamente autonoma da quella sovietica.

Le sue attese però vanno deluse: nell’ottobre del 1956 la rivoluzione ungherese viene repressa con violenza dai carri armati russi.

Calvino lascia il partito e rinuncia alla collaborazione con “l’Unità”, spiegando le sue ragioni in un lungo articolo nell’agosto del 1957.

Dopo alcuni mesi di silenzio, Calvino si impegna nuovamente su temi d’attualità e scrive alcuni lucidi saggi sulla crisi dello spirito rivoluzionario e sulle avanguardie ideologiche marxiste.

Nella sua esperienza di narratore, Calvino ha manifestato un continuo desiderio di “cambiare rotta”, di ricercare sempre forme espressive nuove.

Negli anni Cinquanta pubblica una trilogia di racconti fantastico - allegorici (Il visconte dimezzato, il barone rampante, il cavaliere inesistente), cura una scelta e trascrizione di duecento fiabe della tradizione folkloristica regionale, raccoglie una cospicua antologia di suoi Racconti e scrive un libro che affronta in modo diretto una realtà problematica del presente.

La critica si mostra fin dall’inizio piuttosto ben disposta nei suoi confronti, ma la sua notorietà si consolida soprattutto negli anni Sessanta, e Calvino riceve molte offerte di collaborazioni da parte di quotidiani, riviste, cinema, teatro, televisione.

Davanti a tante richieste il suo atteggiamento oscilla tra la curiosità e il timore di disperdersi. Si può dire che Calvino riesca a coniugare la disponibilità a esplorare i nuovi mezzi di comunicazione con la disciplina rigorosa necessaria alla scrittura.

🔖
Nel 1963 pubblica altri due testi realistici e un romanzo per ragazzi a metà strada tra il filone fiabesco e quello realistico.

Seguono raccolte di racconti che sviluppano in modo fantastico ipotesi e formule scientifiche.


Nel 1980 Calvino raccoglie i suoi principali contributi saggistici nel libro Una pietra sopra, con il quale sembra voler chiudere la stagione dell’”impegno”, ricapitolando le tappe del suo percorso di intellettuale chiamato a offrire nella sua epoca storica una chiave di lettura del reale

Calvino ne indica le tre principali fasi, corrispondenti all’incirca a tre decenni:

  • il momento militante (anni Cinquanta), in cui ha creduto che la narrativa avesse una valenza politica;
  • la scoperta della complessità (anni Sessanta), quando la società gli è parsa “sempre meno padroneggiabile”;
  • la perplessità sistematica (anni Settanta), in cui viene meno la sua fiducia nella possibilità di indirizzare il corso degli eventi.

Anche nelal narrativa Calvino assume il ruolo dell’osservatore distaccato, che convoglia ogni energia nella descrizione.


Calvino dunque interpreta come scrittore e come intellettuale quarant’anni di cultura italiana: attraversa diverse correnti letterarie, come il Neorealismo.

Negli ultimi anni appare sempre meno ottimista: anche di fronte alla fatica di comprendere il mondo, non rinuncia mai a tenere desta una vigile fiducia nelle capacità della ragione, secondo il modello del razionalismo settecentesco.


Nell’estate 1985 Calvino labora a un ciclo di lezioni che gli è stato chiesto dall’Università di Harvard, ma è colto da un malore improvviso.

Viene ricoverato in un ospedale di Siena e muore pochi giorni dopo.

Gli appunti di quegli interventi usciranno postumi con il titolo di Lezioni americane e suggeriscono cinque valori da conservare per il nuovo millennio: “Leggerezza”, “Rapidità”, “Esattezza”, “Visibilità”, “Molteplicità”.


La scrittura “realistica”

La partecipazione alla Resistenza è fondamentale per la formazione umana e politica di Calivino.

I mesi che trascorre insieme con le brigate partigiane comuniste sulle Preapli liguri sono per lui molto duri, ma gli permettono di sentirsi parte di un momento storico decisivo.

Dopo la liberazione avverte quindi come molti altri l’urgenza di raccontare, di rappresentare in tutta la loro concretezza fatti, personaggi, ambienti; desidera però trovare un modo per unire la forza dell’esperienza con la necessaria distanza dalla situazione personale, per potere creare una rappresentazione esemplare, in quale modo epica, in cui tutti si possano rispecchiare.

Sceglie dunque di ispirarsi a un ragazzino reale conosciuto nelle formazioni partigiane e di renderlo protagonista di una storia inventata, in cui affiorano persone e ricordi concreti, ma che vengono modificati e deformati dall’immaginazione.

🔖
Nasce così il romanzo Il sentiero dei nidi di ragno, scritto in pochi mesi e pubblicato dall’editore Einaudi.

Il sentiero dei nidi di ragno può essere letto in molti modi.

É un romanzo picaresco, ossia una narrazione che vede come protagonisti uomini di condizione sociale umile, che cercano di sopravvivere grazie a una serie di espedienti e attraverso vicende tragiche e grottesche.

Nonostante i limiti umani e culturali di coloro che hanno combattuto, per Calvino gli ideali della Resistenza restano validi e degni di essere perseguiti. Come spiega nel libro il commisario Kim, alcuni lottano per la terra, altri per migliori condizioni di lavoro, altri per vaghe idee intellettuali, altri ancora per il desiderio di una casa lontana; in tutti comunque c’è un autentico furore, una spinta di riscatto umano.

Proprio questa tensione morale trasforma anche i peggiori tra i partigiani in protagonisti attivi e generosi.

Nel primo romanzo di Calvino emergono anche molti elementi propri della narrazione fiabesca.

Ad esempio, il personaggio principale è un bambino che passa attraverso numerose avventure e prove; esiste un luogo misterioso e segreto in cui può rifugiarsi e nascondere il suo tesoro, sognando di portarvi l’amico ideale; la pistola è “l’oggetto magico” che dovrebbe servirgli per entrare definitivamente nel mondo degli adulti; l’apparizione di Cugino nella nebbia ricorda quella di un gigante buono, per l’aspetto fisico massiccio e il linguaggio burbero ma gentile; il gesto di Pin che getta dietro di sé nel bosco nòccioli di ciliegia, sperando così di farsi ritrovare da Lupo Rosso rinvia alla fiaba di Pollicino.

Quella di Pin è anche la storia di una formazione mancata.

Pin è un bambino gettato nel mondo degli adulti, che si finge forte e spregiudicato parlando di armi e di donne, ma che di fatto continua a essere infantile: si abbandona ai sogni e alle fantasie, cerca protezione, desidera un vero amico, vorrebbe che i grandi si interessassero come lui alle tane dei ragni.

Alla fine del libro Pin è convinto che Cugino si rechi da sua sorella come cliente, mentre il partigiano va ad ucciderla, in quanto spia dei fascisti, proprio con la pistola prestatagli dal ragazzino.

Pin non è sfiorato dal sospetto, anzi, crede con gioia alla bugia che Cugino gli racconta al suo ritorno, e si lascia prendere per mano, come un bambino accanto ad un padre.

Il percorso di formazione non si è compiuto: il bambino rimane tale, o forse Pin, che era stato costretto troppo presto a mostrarsi grande, è finalmente libero di essere un bambino inconsapevole, protetto da una figura paterna nella notte.

🔖
Tra il 1945 e il 1948 Calvino scrive anche una trentina di racconti che confluiscono nel volume Ultimo viene il corvo, pubblicato nel 1949.

Le storie sviluppano memorie legate alla Resistenza e alla guerra, ricordi dell’infanzia ligure, vicende ambientate nella difficile situazione sociale ed economica dell’immediato dopoguerra.

I protagonisti sono ragazzini, e Calvino esplora possibillità narrative differenti, compiendo veri e propri “esercizi di stile”.


Il sentiero dei nidi di ragno

Per una nuova edizione del Sentiero dei nidi di ragno apparsa nel 1964, Calvino scrive una lunga Prefazione, che si presenta come una riflessione dell’autore sulla propria opera.

Tutti coloro che avevano vissuto la guerra e la Resistenza erano carichi di storie da raccontare e in un momento in cui finalmente era di nuovo possibile esprimersi in libertà si andava accumulando una sorta di “tradizione orale”.

Secondo Calvino, I Malavoglia di Giovanni Verga erano i punti di riferimento per i giovani scrittori desiderosi soprattutto di riuscire a trovare un modo per trasformare il “materiale grezzo” dell’esperienza in un’opera letteraria in grado di esprimere “il sapore aspro della vita”.

Calvino individua come radice del Neorealismo proprio questa ricerca di una forma in grado di dare sapore di verità a contenuti urgenti; egli sentiva di avere a disposizione un paesaggio suo.

L’autore ripete più volte che Il sentiero dei nidi di ragno è il primo romanzo che ha scritto, e ne sottolinea alcuni limiti che attrivuisce alla sua ingenuità giovanile: il tentativo quasi folkloristico di inserire espressioni in dialetto, modi di dire popolari e canzoni.

Sentendosi protagonista di un momento decisivo della storia, Calvino avverte una responsabilità che rischia di paralizzarlo: per questo adotta il punto di vista di un bambino, per raccontare gli eventi da una prospettiva inconsueta.

Il modo in cui Pin guarda gli adulti corrisponde simbolicamente a quello con cui Calvino, affronta la realtà brutale della guera partigiana.

💭
Lo scrittore non intende rappresentare la guerra partigiana in modo celebrativo e retorico, mostrando la realtà anche imperfetta e brutale del mondo partigiano, vuole dimostrare ai benpensanti che anche coloro che si erano gettati nella lotta senza motivazioni ideali e con tanti difetti umani erano comunque divenuti delle “forze storiche attive”, erano stati spinti da uno slancio che li aveva resi migliori.

Calvino afferma di avere voluto scrivere imitando lo stile asciutto di Hemingway e la sincerità e il vigore degli scrittori russi degli anni Venti.

Da questo insieme di suggestioni letterarie è derivato al Sentiero dei nidi di ragno un inconfondibile tono fiabesco che Pavese è stato il primo a notare, e che Calvino riconosce come uno degli elementi caratteristici del proprio stile.

La riflessione di Calvino si chiude con l’ammissione di una parziale sconfitta. Non è Il sentiero dei nidi di ragno il romanzo “epico” della Resistenza.

Infine, ripensando alla propria esperienza, Calvino si rimprovera per non avere avuto la pazienza di custodire più a lungo quel patrimonio di memorie.

La scrittura a “caldo” infatti secondo Calvino brucia i ricordi, ne fissa alcuni in una forma definitiva e cancella tutti gli altri.


La scrittura fantastico fiabesca e la riflessione sui problemi sociali

Poco prima della sua morte improvvisa, Calvino spiega di avere ideato a metà degli anni Cinquanta tre racconti lunghi realistici accomunati dalla scelta di una forma narrativa tradizionale, dalla volontà di indagare temi del presente e di mostrare la reazione di un intellettuale di fronte agli aspetti negativi della società e della condizione umana in generale.

Si tratta di La speculazione edilizia, La giorna d’uno scrutatore, La nuvola di smog.

Sebbene continui a trattare temi di attualità in romanzi realistici come La speculazione edilizia e La nuvola di smog, negli anni Cinquanta Calvino si dedica soprattuttto alla narrazione fantastico - fiabesca e ciò lo espone al rischio di essere accusato di “disimpegno intellettuale”.

In realtà il tentativo di Calvino è quello di coniugare leggerezza e impegno: egli inventa storie inverosimili perchè ha ben presente la natura pedagogica della fiaba, che contiene sempre un ammaesstramento morale.

Scrive pertanto tre romanzi che prendono spunto da immagini fantastiche ma che intendono rappresentare tematiche esistenziali dell’uomo contemporaneo.

Di questo periodo fanno parte: Il visconte dimezzato, Il barone rampante, Il cavaliere inesistente.

Nei tre romanzi si possono individuare alcune caratteristiche affini:

  • si tratta di storie inverosimili, con protagonisti irreali;
  • lo spazio è immaginario, il tempo è lontano dal presente;
  • i contesti sono storicamente riconoscibili;
  • l’io narrante è sempre interno;
  • le tre storie hanno una valenza allegorica.


Negli anni Cinquanta Calvino si dedica inoltre a un accurato lavoro di ricerca e sistemazione del patrimonio di fiabe popolari di tutte le regioni d’Italia.

Tra le varie versioni Calvino sceglie quelle a suo giudizio più belle e originali e le traduce dal dialetto per renderle accessibili al pubblico.

Inoltre lo scrittore aggiunge elementi di invenzione là dove gli pare necessario.

Attraverso questo lavoro Calvino si convince sempre di più del fatto che tra fiaba e realtà non vi sia contrapposizione


Riassunto


→ Personaggi rilevanti


💭 Sigmund Freud

Il rimosso

Secondo Freud la psiche di un soggetto è dominata da attività inconscie. La mente è paragonabile ad un iceberg 🧊 di cui l’inconscio ne è la struttura prevalente, diviso in due zone:

  1. Il preconscio: contenuti temporaneamente inconsci che attraverso uno sforzo di attenzione possono essere riportati alla luce.
  1. Inconscio o Rimosso: elementi che possono essere ripresi solo da particolari tecniche psicoanalitiche poichè mantenuti inconsci dalla forza chiamata rimozione.

Accedervi

Far rilassare il paziente il più possibile e farlo abbandonare ai propri pensieri, generando una fase di transfert.

La personalità

La personalità dell’individuo si crea a partire dall’equilibrio di tre “istanze” inconsce:

  1. Es: obbedisce sempre al principio di piacere
  1. Super-io: insieme delle proibizioni dell’individuo, apprese dalla società in cui vive.
  1. Io: equilibra le pressioni contraddittorie tra Es e Super-Io

Come si manifesta l’inconscio

  1. Sogni: Il contenuto dei sogni cela un desiderio nascosto, interpretare i sogni significa scorgere tratti del proprio Es.
  1. Contrattempi quotidiani (esempio perdere oggetto = sentimento negativo per esso)
  1. Sintomi nevrotici: il sintomo nasce da impulsi dell’Es rimossi, sempre di origine sessuale.
  1. Arte: la produzione artistica riflette la nostra personalità al completo
  1. Religione

⏱️ Henri Bergson

La concezione del tempo

Tempo della scienza

Secondo Bergson il limite della scienza è di considerare il tempo come qualcosa di:

È assimilabile a una collana di perle, tutte uguali, separabili e su una linea retta.

Tempo della coscienza

Esiste al contrario il tempo della vita, ciò che percepiamo attraverso la nostra coscienza, e consiste in:

Nella durata del tempo della coscienza non è possibile distinguere e isolare alcun momento.

È come un gomitolo perchè il nostro passato ci segue, e s’ingrossa senza sosta del presente che raccoglie sul suo cammino.


→ Correnti


🗿 Crepuscolarismo


🔒 Ermetismo

Negli anni Trenta del Novecento nascono numerose riviste culturali che si occupani in particolare di poesia, tra cui “Il Frontespizio”, “Letteratura”, “Solaria”.

Alcuni luoghi delle città diventano leggendari punti di ritrovo degli intellettuali: il Caffè Giubbe Rosse accoglie il gruppo “Lettaratura”.

A Firenze inoltre vivono poeti non fiorentini come Montale.

Pur nella diversità degli orientamenti, gli intellettuali sono accomunati dal difficile rapporto con il regime fascista, nei confronti del quale assumo talora posizioni di aperto dissenso, o più frequentemente atteggiamenti di distacco, di non collaborazione, di nascosto rifiuto.

In questo contesto nasce il cosiddetto “Ermetismo”: non si tratta di una vera e propria “scuola” ma di un modo di intendere e praticare la poesia con scelte linguistiche e stilistiche affini che si sviluppa in particolare tra gli anni Trenta e Quaranta del Novecento, ma che caratterizza anche una significativa parte della produzione poetica del dopoguerra.

A Firenze giugne nel 1929 Quasimodo e dà alle stampe la sua prima raccolta di liriche, Acque e terre, nella quale si colgono alcune caratteristiche proprie del nuovo modo di fare poesia, ossia l’estrema concentrazione verbale e la densità metaforica e analogica.

Il termine “ermetismo” viene usato per la prima volta con accezione negativa, per designare il carattere oscuto ed elitario della nuova poesia: il nome deriva da Ermete Trismegisto, figura leggendaria dell’età ellenistica che in alcuni trattati avrebbe esposto dottrine mistiche di origine egiziana, di difficile comprensione e riservate a pochi iniziati.

I poeti ermetici manifestano una fiducia incondizionata nel valore della letteratura, alla quale intendono dedicare un impegno totale.

I poeti del gruppo degli ermetici affermano di voler attingere all’”Assoluto”: ricercano la “parola assoluta”, “l’assolutezza naturale”, la “metafisica creatività”.

Più in generale il termine “assoluto” va inteso in senso etimologico, ossia “distaccodella parola da tutto ciò che è realtà concreta.

Nei confronti del mondo, essi scelgono la distanza: di fronte al male della realtà vedono come unica soluzione possibile quella di rifugiarsi nel mondo astratto della parola poetica.

Si tratta pertanto di un “assoluto” non trasmissibile: è un’esperienza individuale del poeta nella sua solitudine, non condivisa con gli altri uomini, ai quali non sono forniti strumenti esplicativi per dotare di senso il testo.

La lingua in cui si esprime la poesia ermetica è dunque lontana dalla comunicazione ordinaria, perchè il suo scopo non è “rappresentare” ma “costruire” oggetti verbali autonomi, astratti, capaci di attingere al mistero del mondo e dell’uomo.


🔨 Scapigliatura

Molti giovani artisti che negli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento risiedono nelle grandi città del Nord Italia sono accomunati da un forte senso di insofferenza e sfiducia nei confronti della generazione che li ha preceduti.

Tentano di vivedere dedicandosi unicamente all’arte, ma le condizione precarie li condannano a un ruolo secondario e talvolta alla totale emarginazione.

Non assumono una funzione politica attiva di portavoce degli esclusi, ma scelgono di esprimere l’insoddisfazione dichiarando la loro diversità rispetto ai modelli apprezzati dalla media e alta borghesia.

Nei loro testi si oppongono alle istituzioni del nuovo Regno d’Italia.

Esprimono insomma una volontà di rottura contro quelli che all’epoca sono considerati “padri della patria” (Manzoni, Verdi).

Non si tratta però soltanto di scrittori e letterati, ma di giovani che amano esplorare vari campi artistici.

Carlo Righetti definisce questi come “bohème”, ovvero con un ostile di vita volutamente al di fuori delle convenzioni sociali, tipico nell’Ottocento di giovani artisti e intellettuali parigini.

Alcune caratteristiche del movimento sono:

  • Il luogo in cui i disagi e le situazioni conflittuali emergono in modo evidente è lo spazio cittadino moderno
  • gli scapiglati sono giovani
  • esprimono qualità intellettuali, con qualche eccezione
  • si sentono estranei alla loro epoca
  • non hanno scrupoli etici
  • sentono la contrapposizione tra i loro ideali e la mancanza di denaro
  • sono impazienti e si sentono pronti a sovvertire le regole.

Nella poesia il rinnovamento è soprattutto tematico e non formale.

La provocazione si concentra sulla scelta di argomenti insoliti e scandalosi, presentati attraverso un lessico diretto e inconsueto.

Il poeta dà spazio all’erotismo, al gusto per il macabro e il grottesco.

Tanto nei racconti quanto nei romanzi si sceglie la strada del realismo esasperato, quasi espressionistico, sia quella del fantastico, con l’irruzione di elementi soprannaturali.

Il linguaggio è rinnovato con la mescolanza di parole dialettali, tecnicismi, espressioni popolari, vocaboli ricercati.

Aver contribuito a diffondere in Italia la conoscenza di autori stranieri e l’introduzione del genere fantastico nella nostra letteratura sono i meriti oggi concordemente riconosciuti alla Scapigliatura.


⚗️ Realismo e naturalismo

In Francia, già a partire dagli anni Trenta dell’Ottocento, si afferma in letteratura una tendezza all’abbandono dell’irrazionalismo romantico e al recupero dell’oggettività e del realismo.

I precursorsi sono:

  • De Balzac;
  • Stendhal”.

Stendhal indaga nei suoi romanzi le psicologie di personaggi inseriti in vicende negative e torbide.

Balzac invece è autore di una serie imponente di romanzi di impianto relista in cui compaiono più di duemila personaggi di ogni classe sociale.

Intorno al 1850 una tendenza al realismo la troviamo nell’opera di Gustave Flaubert, il quale raffigura personaggi ordinari fortemente condizionati dal carattere e dall’ambiente sociale.

In Madame Bovary Flaubert descrive il carattere e i desideri irealizzabili di una donna della borghesia di campagna.


Il Naturalismo è una particolare corrente del realismo letterario compresa tra gli anni Sessanta e gli anni Novanta dell’Ottocento, caratterizzata da uno stretto legame tra scienza e letteratura.

La storia di questo movimento è inserparabile dal pensiero e dall’opera di Emile Zola.

Il presupposto nuovo su cui si fonda l’opera dei naturalisti è che il metodo sperimentale delle scienze esatte possa essere applicato alla scrittura letteraria, e che la conoscenza certa dei fatti e dei comportamenti umani conduca al progresso sociale.

Il proposito dei naturalisti di applicare il metodo scientifico in letteratura è espressione dello spirito razionalista e scintista che domina in Francia nella seconda metà del secolo.

Il paese sta infatti vivendo un periodo di grande prosperità.

In questo clima di espansione economica la borghesia si arricchisce rapidamente e gli operai cominciano a organizzatsi in partiti e sindacati per affermare i propri diritti.

Così il romanzo contrasta la propria reputazione di leggerezza assumendo un ruolo sociale serio ed educativo: quello di divulgare la conoscenza del reale e di contribuire al miglioramento della società


Emile Zola

Nasce a Parigi nel 1840, ma vive l’infanzia e l’adolescenza in Provenza.

Quando ha solo sette anni il padre muore di una polmonite contratta in cantiere.

Ben presto la famiglia si trova costretta a liquidare all’asta la società e ad affronatre gravi difficoltà economiche.

Emile abbandona gli studi e conduce una vita disordinata passando da un mestiere all’altro fino a quando viene assunto alla libreria Hachette.

Si schiera con decisione a favore della pittura di Manet che egli apprezza per il suo spirito di verità.

Intensifica inoltre l’attività di giornalismo letterario e politico, opponendosi in modo energico alla politica di Luigi Napoleone Bonaparte, il monarca del Secondo impero.

E’ con il romanzo Thérèse Raquin che Zola imprime una svolta naturalista alla sua scrittura, suscitando le critiche indignate di chi accusa l’opera di essere troppo cruda, ai limiti della pornografia.

Negli stessi mesi inizia a concepire il progetto monumentale di una serie di romanzi intorno alle vicende di una famiglia (Rougon - Macquart) durante il Secondo Impero, costituita da venti romanzi.

La pubblicazione procede con regolarità e assicura a Zola un reddito mensile e una posizione sempre più rilevante.

Le accese critiche sollevate da alcuni romanzi - come “L’Assommoir” - contribuiscono a consolidare la celebrità dell’autore e a diffondere le sue teorie estetiche rivoluzionarie.

I proventi derivati dalle vendite dell’Assommoir consentono a Zola di acquistare nel 1878 una casa di campagna.

Le sue opere suscitano scandalo e vendono migliaia di copie: il nono romanzo dei Rougon - Macquart, che narra la vicenda di una prostituta nell’ambiente lussuoso dell’alta borghesia parigina, vende cinquantacinquemila copie.

A sessantadue anni muore improvvisamente di asfissia per le esalazioni di una stufa.


La poetica naturalista

Il fondamento filosofico del Naturalismo si trova nelle teorie positiviste diffuse nel XIX secolo, secondo cui, grazie alla scienza, la realtà può essere conosciuta razionalmente in tutti i suoi aspetti.

Il saggio di Charles Darwin L’origine delle specie in cui lo scienziato espone la sua teoria della selezione naturale ispira il filosofo Taine, il quale identifica nella race, nel milieu, e nel moment historique i tre principali fattori che influenza il carattere dell’uomo.

Zola si avvicina all’idea del determinismo sociale che sarà fondamento della sua poetica.

L’enunciazione teorica dei principi naturalisti è esposta da Zola in tre principali riflessioni di poetica:

  • La prefazione di Thérèse Raquin
  • L’introduzione alla Fortuna dei Rougon
  • Il saggio Il romanzo sperimentale

La prima qualità del romanziere naturalista è quella che Zola definisce “il senso del reale” cioè la capacità di osservare con scrupolo la realtà del mondo contemporaneo.

Il metodo di lavoro richiede la meticolosa raccolta di dati.

Oltre a osservare conc ura, il romanziere deve anche saper riprodurre ciò che ha visto.

Zola sottolinea dunque l’importanza dell’individualità dello scrittore e del suo talento non soltanto nella selezione dei fatti ma anche nella loro esposizione.

Il lavoro dello scrittore naturalista si presenta quindi come l’equivalente letterario dell’opera di un pittore impressionista, che coglie un’impressione particolare della realtà e la restituisce alla scrittura.

I venti romanzi dei Rougon - Macquart sono uniti tra loro dai personaggi, tutti appartenenti alla stessa famiglia, studiata nel corso di cinque generazioni.

L’intenzione dell’autore è di seguire lo sviluppo dei condizionamenti fisiologici e ambientali a cui sono sottoposti i membri della famiglia.

La capostipite è Adèlaide Foque, che ha avuto figli da due uomini di classe sociale differente: quella borghese del marito Rougon, e quella popolare dall’amante Macquart.

Su tutti pesano le leggi dell’ereditarietà e quelle dell’ambiente; così la patologia originaria della madre, la follia, si dissemina tra i suoi discendenti manifestandosi in modi diversi.

Nel piano dell’opera Zola dichiara l’intenzione di passare in rassegna ogni ambiente sociale, compreso quello delle prostitute, degli assassini, dei marginali; il Naturalismo ha infatti l’ambizione di vedere tutto, di rappresentare tutto, con una particolare attenzione alla miseria economica e morale del popolo.

Il desiderio di verità che sta alla base della poetica naturalista ha un suo corrispettivo nelle scelte formali.

Per rappresentare fedelmente un ambiente sociale, Zola non esita ad adottare il linguaggio che lo caratterizza, anche quello più basso e volgare, ritenuto fino ad all’ora inacettabile in un’opera letteraria.

Nell’Assommoir ad esempio egli ricorre all’Argot, il gergo parlato dagli operai parigini.

Questa contaminazione della lingua letteraria con la parlata popolare è apparsa subito ai lettori un sovvertimento inaccettabile dei codici letterari, sollevando un coro di accuse.

Il secondo espediente a cui Zola ricorre per trasmettere un’impressione di realtà è l’uso generalizzato del discorso indiretto libero, attraverso cui egli realizza la fusione tra la voce del narratore e quella dei personaggi.

L’incertezza su chi stia parlando genera una situazione di disorientamento per il lettore, che non sa a chi attribuire i pensieri espressi e rimane privo di un sistema di valori di riferimento.

L’Assommoir

Il termine deriva da una betola in cui Zola si reca.

Il romanzo viene pubblicato inzialmente a puntate nel 1876, poi in volume nel 1877.

Per preparare il romanzo, Zola visita la periferia nord di Parigi, disegnango gli schemi delle strade e delle botteghe, poi scrive un riassunto della trama, legge libri e articoli sull’alcolismo e sugli operai e consulta dizionari sull’argot.

Nella prefazione al romanzo Zola si difende dalle critiche del pubblico, che in parte lo accusa di dare degli operai un’immagine troppo negativa, in parte gli rinfaccia la volgarità della forma.

Egli dichiara che la lingua che è tanto dispiaciuta ai suoi accusatori è quella autenticamente parlata nei sobborghi, e rivendica di avere voluto scrivere “un’opera di verità”, il primo romanzo sul popolo che non menta.

Brani

→ “La fame di Gervaise” - 84/89


Riassunto


💔 Decadentismo

Negli ultimi vent’anni del XIX secolo si diffonde in vari paesi europei - in compresenza e in contrapposizione al pensiero razionale positivista - un diverso atteggiamento culturale, in genere desgnato come “Decadentismo”.

In particolare troviamo

  • Una generale sfiducia nelle possibilità della ragione scientifica: il pensiero razionale e il legame logico di causa/effetto non appaiono in grado di rispondere sino in fondo agli interrogativi sulla realtà.
  • una critica al concetto di progresso come miglioramento continuo e illimitato.
  • un diffuso diagio nei confronti della società borghese e il rifiuto dei suoi valori.

E’ soprattutto la filosofia di Nietzsche, espressa in una forma aforistica e provocatoria, a sovvertire radicalmente le certezze tradizionali e a diffondere una nuova visione del mondo, individualista, vitalistica e nichilista insieme.

In letteratura gli autori decadenti rivendicano la loro distanza dal Romanticismo, e più ancora dal sentimentalismo di quegli scritori che ripropongono tardivamente modelli romantici; tuttavia non mancano elementi di continuità tra le due epoche.

Nei paesi europi tale categoria non è usata in modo univoco, ad esempio in Francia si identifica con il Simbolismo, in Inghilterra con l’Estetismo e in Italia ci sono due posizioni:

  • Il Decadentismo come “Macro - categoria” che si estende dagli anni Ottana dell’Ottocento sino al pieno Novecento e in cui troviamo anche autori come Svevo, Pirandello, Ungaretti, Montale, Saba.
  • Un uso restrittivo riferito soltanto agli ultimi decenni dell’Ottocento. Infatti si preferisce introdurre il concetto di “Modernismo” per designare la produzione letteraria italiana della prima parte del XX secolo. La distinzione tra Decdentismo e Modernismo ha il vantaggio di rimarcare la profonda differenza di pensiero e di stile tra autori come Pascoli e d’Annunzio da un lato, e Svevo, Pirandello, Ungaretti, Montale dall’altro.

Il termine “decadente” viene usato dapprima dai positivisti con valore dispregiativo, per designare quella che aloro pareva una resistenza tardoromantica e sterile all’inevitabile progresso della società, un peggiormaneto morale e artistico da parte di alcuni scrittori.

Lo stesso termine viene poi orgogliosamente rivendicato come elemento di differenziazione e segno di identità dai letterati.


Il Decadentismo in Inghilterra con Oscar Wilde

Il romanzo emblematico del Decadentismo in lingua inglese è The Picture of Dorian Gray di Oscar Wilde.

In quest’opera si realizza concretamente, attraverso un meccanismo fantastico, la separazione tra sfera estetica e sfera morale dell’uomo, fino alle conseguenze più luttuose.

Oscar Wilde

Nasce a Dublino nel 1854 in una famiglia benestante, compie studie classici prima al Trinity College e poi a Oxford.

Il dandy Oscar Wilde viene a lungo acclamato nell’ambiente modano per la sua scrittura brillante e per la sua vita eccentrica, ma dopo una condanna in tribunale per omosessualità sarà respinto ed emarginato.

il 1895 segna l’apice del successo, ma anche l’inizio della sua rovina.

A causa di una relazione omosessuale Wilde subisce un processop er immoralità.

E’ condannato a due anni di lavori forzati.

Trascorre gli ultimi anni in Francia, sotto pseudonimo, compie alcuni viaggi in Italia e muore in un albergo di Parigi nel 1900.

Brani

→ “Una lezione di edonismo” - 280/282

Riassunto


9️⃣ Inizio ‘900

Nell’orizzonte sociale e culturale di inizio Novecento ci sono pochi punti fermi: l’industrializzazione avanza trasformando radicalmente il paesaggio fisico e gli equilibri sociali, le teorie scientifiche di Einstein relaticizzano la percezione dello spazio e del tempo; la psicoanalisi di Freud rivela la complessità della mente e l’uomo si riscopre fragile di fronte a una realtà interiore ed esteriore sempre più difficile da decifrare.


🚀 Avanguardie storiche del ‘900

Le arti figurative

Con il termine di “Avanguardie storiche” si designano alcuni movimento artistici e letterari che si affermano in Europa nei primi decenni del Novecento, promuovendo un radicale rinnovamento dei linguaggi espressivi in polemica con la tradizione e la cultura ufficiali.

Si tratta di gruppi internazionali e interartistici perchè riuniscono autori di diversi paesi e coinvolgono tutte le arti.

Gli artisti delle avanguardie intendono affermarsi come audaci apripista: al culto del dato oggettivo e della razionalità teorizzato dal Positivirmo e dal Naturalismo, essi contrappongono un mondo percepito attraverso le sensazioni.

Nell’atteggiamento di questi gruppi si esprimono la sfida e la provocazione, lo sberleffo e la polemica contro la tradizione e contro il pubblico il cui gusto viene condannato come espressione antiquata di una borghesia mediocre e affarista.


La contestazione nei confronti dei valori estetici tradizionali risale agli anni Ottanta dell’Ottocento, epoca in cui in Francia i poeti Simbolisti avevano preso le distanze dalla morale comune e dai gusti letterari borghesi approfondendo la ricerca di nuove vie espressive.

Rispetto all’esperienza del simbolismo, le avanguardie dell’inizio del Novecento rifiutano qualsiasi concezione estetizzante ed elitaria: l’arte perde il suo carattere sacrale e il poeta non appare più come un uomo isolato ed eccezionale; egli si sente un precurose, ma sa di appartenere al suo tempo e su questo tempo vuole incidere.


Il rifiuto dei codici culturali e dei mezzi espressivi correnti è legato alla massiccia affermazione del mercato culturale: in quegli anni il prodotto letterario e artistico si era progressivamente trasformato in merce, in oggetto riproducibile in serie che doveva soddisfare il gusto mediocre della maggioranza.

Gli artisti si oppongono a questa riduzione dell’arte a prodotto di consumo e respigono l’idea dell’arte come pacifica fruizione borghese riservata a luoghi preposti.

Vogliono invece portare l’arte nei luoghi più frequentati, per provocare il pubblico e sfidarlo.


Il rinnovamento più radicale riguarda le arti figurative, quando un gruppo di pittori, tra i quali Henri Matisse, espongono le loro opere e il pubblico scopre con stupore alberi viola e figura umane rosse e verdi, colori puri, violenti, buttati a caso sulla tesa per esprimere le emozioni attraverso effetti ottici immediati.


In letteratura il primo a raccogliere e a fare suoi i principi delle avanguardie artistiche è Guillaume Apollinaire che può essere considerato il precursore della rivoluzione letteraria di inizio secolo.

SOgnando di formare un movimento poetico globale, il poeta francese ritiene che, per avvicinarsi il più possibile alla vita, l’atto creativo debba venire dall’immaginazione.

Apollinaire attua un rinnovamento formale: spezza la linearità del discorso poetico e crea immagini figurate facendo ricorso al “testo simultaneo” nel quale fonde poesia e pittura.


Sulle tracce di Apollinaire i movimenti di avanguardia sperimentano forme nuove, ardite e sconcertanti.

A prevalere sono ora il verso libero e la paratassi, spesso accompagnati da una disposizione irregolare delle parole.

Il lessico si apre ad ambiti e temi nuovi e inediti.

Un tale sperimentalismo è legato alla rottura del canale di comunicazione con il pubblico comune: i rappresentanti delle avanguardi non intendono fars icapire, ma vogliono provocare e scandalizzare.

Lo scritto d’avanguardia mira a creare un’opera ileggibile nel presente e scrive per un lettore che non c’è ancora.

Questo futuro lettore deve essere preparato, creato, educato: per questo motivo l’opera degli scrittori d’avanguardia presenta un carattere spesso didattico e pedagogico.


L’espressionismo

L’espressionismo è un movimento che sorge e si diffonde per lo più in Germania e in Austria nei primi decenni del Novecento, dando inizio per primo a quella crisi dei linguaggi artistici.

Si tratta di un orientamento artistico che, opponendosi al Naturalismo e all’Impressionismo, coionvolge diverse forme espressive.

Ciò che caratterizza l’avanguardia espressionista è un impiego soggettivo del mezzo artistico: l’artista fa un uso esasperato, deformante dell’espressione per manifestare il suo stato d’animo travagliato ed estremo.

I temi dominanti sono quelli della città minacciosa e soffocante, della convulsa civiltà delle macchine, dell’angoscia che si esprime in corpi disarticolati e in volti trasfigurati di forte violenza espressiva.

L’espressionismo trova le sue premesse nelle opere di pittoti come Munch, van Gogh, Gauguin.


In letteratura il termine “Espressionismo” viene usato per designare alcune opere letterarie che rappresentano il mondo come una proiezione del soggetto, delle sue ossessioni: la visione dell’artista subentra alla descrizione delle cose.

La brevità e concentrazione delle formule, non coordinate ma giustapposte attraverso la paratassi, la sistematica deformazione delle cose e dello spazio, il lessico basso, crudo, scelto per il suo valore provocatorio e demistificante, danno forma a opere visionarie, astratte, di forte violenza espressiva e polemica.


Il Dadaismo

Il Dadaismo è un movimento artistico e letterario fondanto a Zurigo nel 1916, dal poeta francese Tzara.

Il termine dada è una voce onomatopeica del linguaggio infantile che significa propriamente “cavallo”, ma anche “giocattolo”.

I dadaisti dichiarano di averlo scelto per gioco, aprendo a caso un dizionario francese.

Un tale nome corrisponde allo spirito del movimento che, a differenza del più cupo Espressionismo, sceglie un modo giocoso di manifestarsi.

Il carattere dominante del movimento è, tanto nel campo delle arti figurative quanto in quello letterario, una forte carica anarchica e sovvertitrice che mira a roversciare gli schemi razionali e le rassicuranti certezze che sono alla base della mentalità benpensante.

Nella loro volontà di demolire ogni ordine, i dadaisti si ribellano in particolare contro il sistema dell’arte e della sua mercificazione.

Il suo intento provocatorio è quello di desacralizzare l’impronta creatrice dell’artista e la stessa esperienza artistica.

Oltre al rifiuto della mercificazione dell’arte, i motivi principali del Dadaismo sono la riflessione sul legame tra arte e vita, l’interesse per la follia e per l’inconscio, l’esaltazione del caso e del gesto gratuito.

A differenza del Futurismo, il Dadaismo persegue al contrario l’alogicità, il nosense, l’assurdo, l’uso di parole prese a caso ed elevate a opere d’arte.


La principale accusa che venne mossa al movimento fu quella di non essere riuscito ad andare oltre la provocazione, la protesta, lo scandalo, cioè di non aver proposto una poetica positiva.

Il merito maggiore del Dadaismo sta comunque nell’aver promosso la più ampia e radicale sperimentazione in tutti i campi della produzione estetica.

La fusione di diversi linguaggi artistici, le tecniche del collage e dell’assemblage, il fotomontaggio.


Il Surrealismo

A differenza del Dadaismo, da cui pure viene condizionato, il movimento Surrealista va oltre la semplice provocazione e fa leva su un programma positivo, proponendo un vero e proprio progetto di liberazione da attuarsi tanto sul piano creativo quanto su quello sociale.

I principali esponenti sono Breton, Soupault, Aragon, Eluard.

Breton e i surrealisti vogliono superare il nichilismo e rinnovare radicalmente il rapporto tra l’individuo e il mondo moderno dominato dalla prospettiva razionale borghese.

L’arte deve rivalutare tutto ciò che il Positivismo aveva condannato ed escluso, come il meraviglioso, il sogno, le visioni, la follia, la sessualità, dando voce all’inconscio, inteso come forza in cui si manifestano le pulsioni più profonde e l’immaginazione.

Facendo appello alla teoria freudiana dell’inconscio, i surrealisti utilizzano la “scrittura automatica”, cioè una scrittura che, seguendo le libere e casuali associazioni della mente così come sono “dettate” dai movimenti profondi dell’io, si libera, da “qualsiasi controllo esercitato dalla ragione”.

La prima opera surrealista, Campi magnetici, incita a servirsi dei meccanismi dell’inconscio, proponendosi di liberare il inguaggio dalla sua funzione meramente utilitaristica.

La scrittura automatica, che prevede anche l’uso di tecniche collettive, porta alla svalutazione del talento artistico individuale.

L’analisi marxista è considerata la prospettiva più coerente, in quanto capace di proporre la liberazione totale dell’uomo, per questo i surrealisti si appoggiano a tale pensiero.


Il Surrealismo rivaluta l’arte primitiva, le creazioni degli alienati mentali e le forme artistiche popolari in cui domina il gusto per il macabro e il fantastico.

Al Surrealismo aderiscono pittori europei come Magritte e Dalì.

Il movimento surrealista si indebolisce negli anni Trenta a causa delle divergenze politiche tra i suoi esponenti, che nel 1927 avevano aderito al Partito comunista.


Il Futurismo

Il Futurismo è un’avanguardia interartistica complessiva, capace di influire tanto sulle arti quanto sul costume e sui modelli di comportamento: i numerosi manifesti teorici e tecnici futuristi definiscono la linea del movimento in ogni campo, dalle arti al ruolo della donna, dalla politica alla cucina.

Il movimento viene fondanto nel 1909 da Filippo Tommaso Marinetti, che pubblica il primo Manifesto del Futurismo sul quotidiano francese “Le figaro”.

Questo manifesto contiene già tutte le linee essenziali del movimento: ispirandosi al dinamismo della moderna civilità industriale, Marinetti esalta la bellezza della velocità e della macchina.

Egli è convinto che le nuove forme di comunicazione, come il telefono, il grammofono, ecc, abbiano profondamente influenzato la sensibilità e la psiche umana, producendo fenomeni significativi come l’attrazione per il nuovo, l’imprevisto, il pericolo e la velocità: l’arte deve dunque adeguarsi a questa nuova percezione delle cose trovando gli strumenti espressivi più adatti e opponendosi con forza alla tradizione.

Marinetti scaglia la propria invettiva contro le città d’arte e propone di distruggere i musei, le accademie, le biblioteche, e tutte le istituzioni che celebrano l’arte nella sua separatezza e salvaguardano i valori della tradizione e del passato.


A differenza delle altre avanguardie, il Futurismo non si oppone alla mercificazione dell’arte, ma provocatoriamente la accetta, proponendo anzi di sostituire il valore estetico dell’opera con quello commerciale.

L’artista perde così l’aura conferitagli dalla critica, ma mantiene una posizione di privilegio.

Perfettamente adeguati alla “modernità”, i futuristi colgono l’importanza della comunicazione di massa e se ne servono con abilità a scopo di propaganda: lo scandalo e la provocazione volutamente ricercati sono efficaci strumenti per spettacolarizzare il loro messaggio e per imporsi al pubblico.

La rivolta Futurista non è priva di ambiguità: da un lato, rispetto alle altre avanguardie europee, la cui polemica antiborghese appare radicale e senza compromessi, l’adesione totale e acritica dei futuristi italiani alla modernità riflette la loro accettazione e celebrazione dello stato sociale dominante, quello dell’industrialismo capitalistico. Dall’altro altro, l’esaltazione del movimento aggressivo e del gesto violento spinge i futuristi a glorificare la virilità, il militarismo, la guerra, in definitiva, il fascismo.


Sin dalla sua prima fase, dal 1909 al 1912, il Futurismo sente l’urgenza di trovare un linguaggio adeguato per tradurre in modo efficace la nuova sensibilità.

Il Futurismo radicalizza il dannunzianesimo e ne diventa l’involontaria parodia.

Sul piano formale, la parola d’ordine di questa prima fase è quella del verso libero, innovazione che incontra l’ostilità di Pascoli e il silenzio di d’Annunzio.

Durante la seconda fase del movimento, dal 1912, al 1915, il rivoluzionamento delle forme espressive diventa più radicale: il Manifesto tecnico della letteratura futurista, a cui seguono altri due manifesti, segnano una svolta decisiva; per esprimere la velocità, la simultaneità edlle impressioni, la rapidità di diffusione di una notizia, il poeta non pul perdersi nei meandri della sintassi tradizionale, che prevede di subordinare tra loro le frasi.

Marinetti passa così dal verso libero alle parole in libertà, gettate sulla pagina senza ordine logico e associate per analogia, seguendo una immaginazione senza fili.

I poeti futuristi devono distruggere la sintassi, abolire la punteggiatura, sopprimere l’aggettivo e prediligere l’uso dei verbi all’infinito, dell’onomatopea e della poesia visiva.

L’uso delle analogia permette di penetrare l’essenza della materia nelle sue diverse e opposte componenti.


Se nell’ambito letterario il Futurismo rimane piuttosto scarso di risultati, più significativi sono invece i risultati sul piano della pittura.

Troviamo Boccioni, Carrà, Balla che sottoscrivono il Manifesto dei pittori futuristi.

Vengono così elaborati i concetti di dinamismo plastico, simultaneità, polimaterismo e di compenetrazione dei piani.


Durante la fase che va dal 1915 al 1920 il Futurismo accentua la sua tendenza alla politicizzazione.

Se i membri del movimento avevano ripetuto sin dall’inizio che le loro idee non riguardavno soltanto le arti, ma anche la politica e un nuovo senso del vivere, con l’avvicinarsi della Prima guerra mondiale le loro posizioni si trasferiscono sempre più sul piano d’azione, sfociando prima nella partecipazione alle manifestazioni interventiste, poi a quelle fasciste e imperialiste.

Dopo la guerra i futuristi si organizzarono in un partito politico, passando progressivamente dalle iniziali posizioni genericamente nazionalistiche a antimonarchice a un sovversivismo di destra che esalta l’espansione imperialistica e l’azione violenta di gruppi organizzati.

La maggior parte dei futuristi aderisce al fascismo, che considerano come la realizzazione minima del loro programma politico.

Nel 1920 si chiude la cosiddetta “fase eroica”, il movimento continua a sopravvivere anche negli anni Venti e Trena ma senza più reale incidenza nella vita culturale e politica.

Filippo Tommaso Marinetti

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Filippo Tommaso Marinetti nasce ad Alessandria d’Egitto nel 1876.

La famiglia si trasferisce a Milano nel 1894.

Dopo aver conseguito il baccalaureato a Parigi, si iscrive alla facoltà di Legge a Pavia.

Il Fratello Leone muore e Filippo matura in quegli anni profondi sensi di colpa e un cupo pessimismo, che si convertirà in seguito in un atteggiamento di ostentato ottimismo fondato sull’idea dell’uomo invincibile e immortale.

RIceve i primi riconoscimenti in Francia, dove collabora ad alcune riviste di Parigi ma elabora le sue idee a Milano.

Egli cerca una terza via tra l’estetismo decadente di d’Annunzio e la marginalità ostentata dei Crepuscolari.

Nella società industriale, dominata da mezzi di comunicazione, il poeta non può più starsene in disparte, ma deve rivolgersi alle masse.

Marinetti mostra sin dall’inizio una perfetta padronanza dei mezzi di comunicazione e un’are sapiente della pubblicità che fanno di lui un abilissimo organizzatore di cultura capace di suscitare energie intellettuali e adesioni anche grazie agli scandali e alle azioni eclatanti.

Nel 1909 pubblica il “Manifesto del Futurismo”, in questo e nei successivi manifesti Marinetti, dando prova di una retorica tagliente di grande efficacia, lancia la propria invettiva contro i miti romantici e di tutta l’arte passatista.

L’azione riformatrice di Marinetti appare più decisiva in campo teatrale: l’idea di uno spettacolo sintetico in cui i personaggi, ridotti a individualità astratte, operano in uno spazio scenico polidimensionale diventerà un punto di riferimento decisivo per il successivo teatro di avanguardia.


In campo politico, Marinetti oscilla tra posizioni diverse: dal socialismo umanitario all’anarchia, dalla sinistra al fascismo.

Con l’avvicinarsi della Prima guerra mondiale, l’attivismo programmatico dei manifesti si trasforma in nazionalismo e acceso interventismo.

Nel 1918 egli elabora l’idea di fondare un “partito futurista” il cui programma comprende l’educazione patriottica e militare nelle scuole, ma anche un miglioramento delle condizioni dei lavoratori.

Gli intenti antisocialisti e antiborghesi del programma attirano l’attenzione di Benito Mussolini, da cui Marinetti rimane a sua volta affascinato.

Nel fascismo Marinetti crede di vedere la realizzazione delle sue idee futuriste e rivoluzionarie.

Marinetti muore nel 1944, sotto la Repubblica di Salò.

Brani

→ “Manifesto del Futurismo” - 48

→ “Manifesto tecnico della letteratura futurista” - 51


Riassunto


📒 La crisi del Romanzo

La rivoluzione romanzesca del primo Novecento

Nei primi tre decenni del Novecento si compie in Europa una vera e propria rivoluzione estetica che, insieme con la poesia, la musica e la pittura, tocca anche l’arte del romanzo e il modo di rappresentare i personaggi.

La filosofia di Henri Bergson, la teoria psicoanalistica di Sigmund Freud e la nuova fisica di Albert Einstein corrodevano a poco a poco le solide strutture del pensiero sulle quali poggiava la società positivista, dissolvendo la nozione di tempo e quella di individuo:

I romanzieri non possono più accontentarsi della struttura tradizionale del romanzo e cercano nuove forme per esprimere la coscienza incerta del soggetto in questo mondo frantumato.

Il romanzo europeo non cerca più allora di riprodurre la vita né di offrire un’immagine veritiera delle relazioni umane; dal piano oggettivo del narratore si passa al piano soggettivo del protagonista.

La realtà filtrata dalla coscienza

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Il sapere a “cosa serve” e “quando si usa” viene dissolto nel ‘900

Paul Valéry riassume efficacemente la comune insoddisfazione dell’epoca verso le forme romanzesche tradizionali proclamando il suo fermo rifiuto di una scrittura narrativa che si limita a una piatta descrizione dei fatti.

A interessare gli scrittori non è più la realtà esterna ma lo spazio vivente della coscienza, l’unico a cui il romanziere possa avere veramente accesso.

La realtà, filtrata attraverso la coscienza del protagonista, non si presenta più cristallizzata in una forma stabile e definitiva ma appare fluida, sfaccettata, instabile, intermittente.

Nascono così opere prive di una struttura “logica”, in cui l’ordine cronologico viene manomesso e il racconto lineare è sostituito dal disordinato flusso di impressioni, di immagini, di impulsi del personaggio.

Tra le opere più significative di questa rivoluzione troviamo:

  • Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust
  • Ulisse di James Joyce
  • Al Faro di Virginia Woolf
  • I romanzi di Franz Kafka

Personaggi divorati dall’interiorità

La disgregazione delle forme romanzesche tradizionali coincide con la dissoluzione stessa del personaggio.

Il romanzo ottocentesco di Alessandro Manzoni aveva creato grandi figure umane la cui apparenza fisica e profondità psicologica erano dotate di un forte rilievo individuale e offrivano l’illusione del reale.

E’ proprio questa corrispondenza tra individuo e società a essere messa in crisi dai grandi innovatori del romanzo.

Al centro delle loro narrazioni si trova un personaggio divorato dalla sua vita interiore, un “inetto” la cui volontà risulta indebolita al punto che egli non sembra più in grado di assumere un’identità persistente, né di conoscere i mezzi necessari a realizzare i suoi incerti fini.

Il suo rapporto con la società è ambiguo e problematico e la sua coscienza riflette il conflitto con un mondo a cui si sente radicalmente estranea.

Una narrativa analitica

La narrativa precedente era esplicativa, la nuova è interrogativa, analitica: alla ricerca delle cause sostituisce la ricerca del senso delle cose, un senso che, retto da un principio di instabilità, compare e sfugge continuamente.

Le modalità della focalizzazione

Mentre nel romanzo ottocentesco dominava la narrazione in terza persona, i romanzi di questo periodo sono spesso scritti in prima persona.

La vera novità formale è legata alle modalità della focalizzazione, che seguono due tendenze concorrenti:

La prima consiste nell’interiorizzazione del mondo romanzesco da parte di una coscienza: la narrazione è cioè espressione di una soggettività nella quale la realtà del mondo viene per così dire assorbita; la focalizzazione è allora prevalentemente interna.

All’interno di questa tendenza troviamo:

  • Proust
  • Woolf
  • Joyce
  • Svevo

La seconda consiste invece nell’abolizione del soggetto, in modo tale che il discorso narrativo non appaia più come la manifestazione di una coscienza, ma diventi anonimo, non assegnabile ad alcun soggetto; la focalizzazione è in questo caso esterna.

In questa troviamo:

  • Kafka


Il romanzo in Italia

Mentre nel resto d’Europa la critica segue con interesse l’evoluzione del romanzo discutendo sulle forme del suo rinnovamento, in Italia i critici assistono con indiffrenza a un tale dibattito.

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Lo scarso interesse per il rinnovamento delle forme nasce da un’impostazione critica condivisa, che associa il rifiuto teorico dei generi letterari a una concezione astorica del romanzo inteso come una sorta di essenza immutabile che, definita una volta per tutte secondo il modello classico (Manzoni), non può essere modificata nel tempo.

Così, mentre nel resto d’Europa il romanzo si avvia a uno sconvolgimento senza precedenti, in Italia i critici e i letterati discutono soprattutto di “stile”, di eleganza formale e non concepiscono che si rimetta in discussione la struttura tradizionale.

L’ostilità italiana prende origine da una concezione del romanzo ispirata al modello classico, in base al quale la forma romanzesca esprime un soggetto o rappresenta il mondo per un soggetto.

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Il timore diffuso è che la dissoluzione della forma possa mandare in frantumi anche l’unità del soggetto.

Si ha la paura che si perda di vista ciò che dà unità e senso al mondo romanzesco: l’uomo.


Il cosiddetto “modernismo” avrà in Italia alcune caratteristiche particolari, come il mantenimento di una trama anche nei romanzi più destrutturati e il rifiuto del più radicale “flusso di coscienza”.

In questi anni, in Italia, a dettare la moda in fatto di gusto letterario sono alcune riviste fiorentine.

Il primo decennio del Novecento è caratterizzato dal diffondersi di numerose riviste politico-culturali che presentano alcuni tratti comuni: si pongono provocatoriamente contro il positivismo e le sue espressioni letterarie, il Naturalismo e il Verismo.

Sul piano letterario tentano di aprire la cultura italiana alle influenze europee, ma rimangono fortemente vincolate a un estetismo di stampo dannunziano, che tende a non riprodurre, ma a “trasfigurare” la realtà.

Diversa dalle altre e decisiva per il discorso sul romanzo è la più importante tra le riviste fiorentine “La Voce”.

La rivista conosce due fasi molto diverse fra loro:

  • Nella prima fase è caratterizzata dalla volontà di dare “voce” alla nuova generazione intellettuale, spingendola a uscire dal suo isolamento e a reagire alla retorica.
  • Nella seconda fase si trasforma da rivista politico-culturale a rivisita puramente letteraria, teorizzando la poetica detta del “frammento” e difendendo la necessità di una prosa lirica, breve, intensa, che verrà poi denominata “prosa d’arte”.

I principi di questa poetica sono:

lo scrittore deve saper cogliere le vibrazioni segrete del sentimento, esprimendosi in una prosa “lirica”, cioè in un componimento intenso e breve stilisticamente puro, formalmente perfetto.

Alla luce di questa poetica i “frammentisti” sviluppano un vero e proprio programma dell’antinarrativa: contrari a ogni forma di letteratura “costruita” e “oggettiva” essi guardano con diffidenza al romanzo, che considerano come un accumulo di materiali disordinati.


In un tale clima ostile al rinnovamento del genere romanzesco, gli scrittori italiani che vogliono dedicarsi alla narrativa sperimentando nuove forme devono farlo quasi chiedendo il permesso, clandestinamente.

I due autori italiani più vicini al rinnovamento europeo delle forme narrative sono Pirandello e Svevo, i quali sfuggono tanto al purismo dei “frammentisti” quanto al conservatorismo.

I due scrittori giungono da strade diverse a un romanzo di tipo nuovo, analitico e destrutturato.

Sin dai suoi primi romanzi Svevo porta il dramma dentro il personaggio creando un campo narrativo mobile, instabile.

Pirandello racconta l’incertezza di ogni forma, di ogni verità, attraverso una forma frantumata che mima la progressiva dissoluzione del protagonista.

Tuttavia l’Italia non è pronta ad accogliere il rinnovamento delle forme romanzesche: i primi romanzi di Svevo vengono ignorati dalla critica.

L’accoglienza delle opere di Pirandello, pur molto meno ostile di quella riservata a Svevo, traduce la stessa difficoltà italiana ad accogliere le novità in fatto di narrativa.

Non a caso lo scrittore siciliano riesce a imporsi in Italia non tanto con i suoi romanzi, ma attraverso lo “scandolo” del suo teatro.


Riassunto